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Avvento, tempo di attesa
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L'Arcivescovo, nella sua prima omelia, che pubblichiamo integralmente, delinea i tratti fondamentali dell'inizio del nuovo anno liturgico

Omelia del 2 dicembre 2017

 

Comincia un nuovo anno liturgico, un tempo benedetto nel quale ci prepariamo alla venuta del Signore; tutta la vita, infatti, altro non è che camminare in compagnia di Cristo nell’attesa del suo ritorno. L’anno che inizia non è però un devoto ricordo della vita di Gesù o della storia di chi ha preparato la sua venuta nella carne; l’aggettivo “liturgico” dice che questa esperienza è mistica, cioè ci presenta e allo stesso tempo ci fa entrare nei misteri di Cristo che ce lo rendono vicino, a noi contemporaneo, in una parola: “vivente”. Un nuovo anno ci invita a ricominciare daccapo, non perché sia un eterno ritorno ma nel senso che ci ri-corda, ci riporta al cuore l’esperienza vera e reale di Gesù perché ci guarisca e ci salvi.

Ogni fine ed ogni inizio di anno dovrebbero essere quindi il momento dei bilanci, preventivo e consuntivo, del nostro camminare nella fede con Lui, devono portare a chiederci in cosa abbiamo compiuto passi in avanti, cosa invece continua ad appesantirci per ripartire con sempre nuovo slancio.

Come già accaduto qualche domenica fa, al Vangelo non interessa dare indicazioni sul momento preciso del ritorno di Cristo. Forse quest’incertezza genera inquietudine o timore? Se siamo animati dalla speranza, è assurdo temere di andare incontro al Signore. Riusciamo anche noi a dire con Isaia “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”?

L’anno si apre con l’Avvento, tempo forte che si concluderà a Natale per poi culminare nella Pasqua di Cristo verso cui tutto converge. Per questo, mai dobbiamo dimenticare che il Cristo che incontriamo nei misteri della fede è il Crocifisso Risorto, il quale ci spiega le Scritture e quanto si riferisce a lui (cfr. Lc 24, 27). Cirillo di Gerusalemme così sintetizza il senso dell’Avvento, che dà inizio ad un nuovo anno liturgico: “Noi non annunciamo soltanto una prima venuta di Cristo, ma anche una seconda, molto più splendida della prima. L’una avvenne sotto il segno della pazienza, l’altra porta  la corona del Regno divino. (…) Nella prima venuta fu avvolto in fasce nella mangiatoia, nella seconda si circonda di luce come di un mantello. Nella prima sopportò la croce, disprezzandone la vergogna; nella seconda viene scortato da schiere di angeli nella gloria. Non fermiamoci, dunque, soltanto alla prima venuta, ma aspettiamo anche la seconda”.

L’Avvento non richiede un atteggiamento passivo: sempre in agguato è una sorta di fatalismo che ci fa subire quel che accade, puntualmente contrapposto al fanatismo di chi vede sistematicamente addensarsi all’orizzonte un futuro catastrofico. Entrambi questi atteggiamenti non sono produttivi, perché non si cimentano con la bellezza – e la fatica – del vivere qui ed ora, in questo tempo, che è tempo di grazia; S. Paolo ce lo ricorda nella seconda lettura: “Non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”, carismi che abbiamo la responsabilità di far fruttificare.

L’Avvento è definito anche tempo dell’approssimazione, nel senso stretto del termine, dell’avvicinarsi, dell’approssimarsi. Il padrone di casa, infatti, si avvicinerà, ritornerà, ci ricorda il vangelo odierno. Il padrone che ritornerà alla fine dei tempi è lo stesso che ha preso la nostra carne e che celebreremo a Natale. Lui si è fatto prossimo a noi nella piccolezza e a noi chiede di farci a lui vicini, perché solo in lui trova ristoro la nostra ansia di pienezza.

Il Signore si avvicina, noi lo attendiamo: siamo i servi della parabola ai quali ha dato il potere sulla sua casa. Il verbo “attendere”, etimologicamente significa tendere a, quindi, niente a che vedere con un atteggiamento attendista, pigro, fatalista. “Tendere a” presume che si desideri ciò o chi si attende. Desideriamo il Signore o il suo ritorno ci spaventa? Raccomanda S. Agostino: “Chi è senza preoccupazione, aspetta tranquillo l’arrivo del suo Signore. Infatti che sorta di amore per Cristo sarebbe il temere che egli venga? Fratelli, non ci vergogniamo? Lo amiamo e temiamo che egli venga! Ma lo amiamo davvero o amiamo di più i nostri peccati? Ci si impone perentoriamente la scelta. Se vogliamo davvero amare colui che deve venire per punire i peccati, dobbiamo odiare cordialmente tutto il mondo del peccato. Lo vogliamo o no, egli verrà. Quindi non adesso; il che ovviamente non esclude che verrà. Verrà, e quando non lo aspetti. Se ti troverà pronto, non ti nuocerà il fatto di non averne conosciuto in anticipo il momento esatto.”

Nella vita di tutti i giorni sappiamo bene che, quando si attende il ritorno di una persona cara, l’incertezza dell’ora in cui verrà non genera paura o timore; semmai, spinge ad essere più attenti, a non distrarsi, in una parola, ad essere vigilanti, ed è questa virtù che oggi il Vangelo suggerisce ai cristiani. “Di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge. Seguiamo dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo. (…) Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda” (Aelredo di Rievaulx).

Gesù, nel Vangelo invita ad essere vigilanti perché solo chi è vigilante è fedele, attento, scrupoloso, non si lascia soffocare dalla routine, non si distrae, cerca il senso profondo in ciò che accade, esercita la virtù del discernimento. Il cristiano non evade dal presente, non cerca “sballi” per “non pensarci”, anzi, considera la quotidianità – che a volte può essere ripetitiva o monotona – come il luogo ordinario in cui può farsi santo. Sarebbe un’offesa alla nostra dignità di persone umane create a immagine di Dio, non esercitare il dono dell’intelligenza e lasciarci andare, vivendo “incoscientemente”. Ci è chiesto perciò, di meditare, di collegare quanto accade con la Parola che ascoltiamo; solo così possiamo scorgere la presenza di Dio nella nostra vita e intuire dove Egli vuole condurci. La nostra storia è storia di salvezza, perciò ogni accadimento ci parla di Cristo e ci orienta a Lui; non lasciamo che passi inosservato!

Non camminiamo nel buio, non attendiamo uno sconosciuto: Gesù è già venuto ed è rimasto in mezzo a noi; noi, però, abbiamo bisogno continuamente di approssimarci a Lui, di ad-tendere Lui, di fuggire la tentazione di autosufficienza, di scoprire quanto è bello vivere in comunione con Lui. Sbaglia chi è nostalgico dei tempi andati, come se il Signore oggi fosse assente. Qualcuno ha detto: “Il tempo migliore è il mio presente qui con te”.

Gesù ci chiede di non lasciarci sfuggire la vita, di non perdere di vista le tante occasioni che abbiamo per incontrarlo in ciò che facciamo, per servirlo nei poveri, e farlo sempre meglio. L’Avvento è un tempo propizio per chiederci, nell’esame di coscienza a fine giornata, come abbiamo trascorso il tempo che Dio ci ha donato, se lo abbiamo valorizzato o siamo stati fannulloni.

Non siamo quindi spaventati né pessimisti di fronte alle tribolazioni del mondo e della storia, ma attenti e impegnati per il Regno che avanza e ci prepara all’incontro con Cristo che sarà gioioso se a lungo desiderato. Maria, donna dell’attesa, ci insegni ad essere pronti e vigilanti nell’attesa del suo figlio Gesù.

 

Saluto di Mons. Rocco Pennacchio al termine della Santa Messa

Cari amici,

sono ancora vive in me e in molti di voi le emozioni vissute sabato scorso a Matera quando, alle quattro del pomeriggio, avete partecipato alla mia gioia di essere consacrato vescovo. Un sacerdote lucano, proveniente dall’antica e gloriosa Arcidiocesi di Matera-Irsina, formato nel Seminario Teologico di Basilicata, viene a voi. Il popolo lucano non è un popolo vanitoso, perché sa bene che, oltre alla sua onesta povertà, ha davvero poco di cui vantarsi. Un sacerdote amico, qualche giorno fa, mi faceva notare come la stessa scoperta di Matera, oggi proiettata su scenari internazionali, è in realtà una scoperta recente, che ha sapientemente trasformato in un interessante bacino culturale quel che fino a ieri era piuttosto emblema di una povertà degradante. Per fortuna, nella Chiesa questi criteri sociologici di grandezza e di piccolezza non hanno ragion d’essere: in essa, infatti, siamo tutti grandi perché figli amati da Dio, e tutti piccoli perché impastati di umana fragilità.

Anche oggi, alle quattro del pomeriggio, siete stati convocati nella nostra bellissima Cattedrale per accogliermi come vostro Pastore. Come Giovanni evangelista, anch’io custodirò nel cuore, il ricordo delle quattro del pomeriggio, l’ora in cui ho l’onore di mettermi al vostro servizio.

Anche a me Giovanni Battista invita a fissare lo sguardo su Gesù, l’Agnello di Dio. Infatti, solo guardando a Lui il vescovo intuisce e comprende che, se grande è l’onore, ancor più grande è la responsabilità. I nostri, infatti, non sono tempi di trionfi, bensì assai spesso di prova e di umiliazione. E non potrebbe che essere così: il nostro “Capo”, infatti, è un Signore crocifisso, e di lui noi tutti siamo immagine e discepoli. Mi incoraggia, innanzitutto, la consapevolezza che mi accompagna – mi basta – la Sua grazia, la grazia di Cristo che tutto vince e riconduce a bellezza.

Anche io, come i discepoli di Giovanni, oggi, in modo nuovo, vengo chiamato a seguire Gesù, e a farlo insieme, Chiesa di Fermo, sostenendoci reciprocamente nel cammino della vita. Mi rincuora la consapevolezza di essere accolto con gioia e amicizia in questa diocesi, in mezzo a voi, nel cammino pastorale tracciato dai vescovi che mi hanno preceduto, per ultimo Mons. Luigi Conti, che saluto con tanto affetto. In particolare ai presbiteri chiedo di aiutarmi a far crescere la comunione tra noi, tra i presbiteri e i laici, tra le aggregazioni ecclesiali, perché siamo tutti testimoni veri del Signore Gesù.

Accolgo, trepidante, le attese di tanti, dei poveri soprattutto, nel timore di non riuscire a soddisfarle. Su un giornale, oggi ho letto che i giovani, in particolare, si aspettano che il vescovo sia un amico e padre con cui riuscire a confrontarsi: aiutatemi ad essere così, venite a trovarmi, cercatemi se necessario, io ce la metterò tutta.

Mi confortano le tante persone, le tante famiglie, che in questi ultimi mesi mi hanno dimostrato in tanti modi di volermi bene, e hanno assicurato la loro preghiera, così preziosa specialmente quando nasce da ferite, sofferenze e infermità.

Ancora, alle quattro del pomeriggio, sento, come i discepoli di Giovanni, il bisogno di dimorare con il Signore per poter invitare anche altri e dire Venite e vedrete. Chiedo a tutti voi, in particolare alle persone consacrate, alle tante contemplative presenti in diocesi di sostenermi con la vostra preghiera perché impari sempre di più a stare con Lui e così adempia al solenne impegno preso sabato scorso di pregare, senza mai stancarmi, per il mio popolo santo, ed esercitare in modo irreprensibile il ministero del sommo sacerdozio.

Se sappiamo fissare lo sguardo su Gesù, sapremo seguirlo, dimorare con Lui, e invitare altri a seguirlo. Un vescovo non può aspirare ad altro. Per questo, da oggi il mio tempo, la mia sollecitudine pastorale, tutto il mio affetto è per voi, carissimi fedeli della nostra bella diocesi di Fermo. Com’è scritto sui manifesti affissi in città: “Oggi entro nel vostro cuore e nella vostra vita come uno di voi e per voi guida e pastore”. Sono il vostro Vescovo, aiutatemi a diventarlo sempre di più.

Le radici però non si dimenticano… Consentitemi perciò di ricordare e salutare le tante persone che oggi mi hanno condotto sino a voi, delle quali un nutrito gruppo è giunto fin qui a Fermo. Innanzitutto mi accompagna la mia famiglia alla quale sono debitore di avermi cresciuto, formato e incoraggiato nelle scelte fondamentali della vita. Non saranno certo i chilometri a separarci…

Saluto con affetto i vescovi presenti, il presidente della CEM, Mons. Piero Coccia, l’Arcivescovo di Matera-Irsina Mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, che ha accompagnato un nutrito gruppo di fedeli da varie comunità della diocesi. Vi chiedo di continuare ad accompagnarmi con l’affetto che sempre vi ha contraddistinto e che è balsamo prezioso di consolazione.

Molti amici, trai quali tanti sacerdoti, alla spicciolata, sono giunti oggi qui da varie parti d’Italia: in loro rivedo tratti di storie personali, familiari, a volte anche dolorose che mi hanno edificato. Vi sono grato.

Infine, un abbraccio particolare agli amici della parrocchia di San Pio X in Matera, così numerosi. Non dimenticherò questo anno trascorso con voi, denso di impegni, collaborazione, amicizia, gratuità. Un anno, come una catechista ha scritto qualche giorno fa, trascorso quasi sulle montagne russe, per i tanti eventi dolorosi e gioiosi che lo hanno caratterizzato. Il nuovo parroco, don Domenico, saprà condurvi alla maturità cristiana e a “generare Dio” in voi.

A tutti voi qui presenti e, in particolare a quanti hanno lavorato per la riuscita di questa celebrazione e degli eventi connessi, in particolare al coro e ai musicisti che hanno allietato il nostro cuore, dico semplicemente: grazie! E perdonatemi se ho dimenticato qualcuno.

Alle autorità qui presenti, rinnovo stima e rispetto per il servizio che rendete alla crescita umana della nostra comunità.

Domani, spenti i luccichii della festa, incomincia il lavoro quotidiano, quello più impegnativo. Non temo perché c’è Maria, la Madre dolcissima che Cristo Signore ha eletto a nostra difesa, a nostra avvocata, a madre di misericordia. Senza il suo aiuto, senza la sua tenerezza e la sua sollecitudine saremmo semplicemente perduti. La Madonna della Bruna che mi ha condotto a voi, la ritrovo qui a Fermo, venerata Assunta in Cielo; a Lei, c he per i lucani è la Madonna Nera, mi sono affidato mercoledì scorso al santuario regionale di Viggiano. Mi sento accompagnato dai suoi occhi regali e insieme materni, che tanto hanno affascinato le generazioni della terra di cui anch’io sono figlio. Per la gloria di Dio, sia Lei ad intercedere per me perché io sia immagine radiosa di colui che è “pastore e vescovo delle nostre anime” (1 Pt 2,25), il Cristo Signore, Figlio di Dio e Figlio di Maria, al quale unicamente vanno l’onore e la gloria, nei secoli dei secoli.

Amen.

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