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Centro San Rocco - Interventi
Il rapporto tra i giovani e le questioni esistenziali e religiose in una riflessione di Francesco Sandroni
È mia convinzione che “i giovani” non esistono. Esistono, ed è ovvio, persone che all’anagrafe sono nati dai quindici ai venticinque anni fa ma definirli come un omogeneo “soggetto” sociale o culturale è del tutto arbitrario. Lo sono stati “soggetto” sociale e culturale negli anni sessanta e settanta del ventesimo secolo perché le condizioni culturali ed economiche permettevano a quelli nati “dopo la guerra” di interpretare e vivere la storia di quegli anni in maniera diversa da quelli nati prima di loro. Ma oggi non è più così. Cresciuta quella generazione, i giovani soggetto culturale omogeneo non lo sono stati più. Forse soggetto economico, almeno dal punto di vista dei consumi, ma anche qui la variegata capacità di spesa dei genitori li rende poco omogenei anche da questo punto di vista.
Tenuto conto di ciò non mi sottraggo a raccontarvi due approcci alla “spiritualità” giovanile che forse non sono rappresentativi di nulla ma che hanno avuto il merito, per quello che vale, di attirare la mia attenzione. Due approcci che tengono conto di due caratteristiche fondamentali della spiritualità, cioè il “principio speranza” e la “ricerca”.
Ho avuto la fortuna di conoscere in questi ultimi anni vari ragazzi stranieri che abitano e studiano in Italia, perché i loro genitori sono emigrati qui da noi per lavoro, molti dei quali nati anche in Italia. I cosiddetti nuovi italiani, insomma. In molti di loro, soprattutto nelle ragazze, è presente un approccio alla costruzione del loro futuro che quelli della mia generazione, cioè i giovani degli anni ’80 e ’90, non hanno conosciuto. Non c’era. È l’approccio di chi guarda al proprio futuro come qualcosa di importante, qualcosa per cui vale la pena impegnarsi sul serio. Probabilmente non sarà un futuro radioso, fatto di chissà quali realizzazioni sociali: non sognano di essere ballerine o cantanti o sportive famose. Basta poco, o apparentemente poco, a rendere appetibile il domani: un lavoro serio, qualcuno con cui condividere la vita, relazioni sociali stabili e sicure. Poco ma non scontato. Non è neanche una questione di emancipazione, è semplicemente un modo di dare valore alla vita. Per questi ragazzi la vita, la loro vita, ha un valore per il quale la pena impegnarsi. Non so se Ernst Bloch sarebbe d’accordo con questo "principio speranza" ma è molto rispetto a quello che passa il convento.
Un'altra cosa che mi ha incuriosito in alcuni giovani che ho incontrato in questi ultimi anni è il basso profilo con cui si approcciano alle cose. Alle cose religiose, spirituali, ma tendenzialmente a qualsiasi cosa. Un atteggiamento che assomiglia a quello di chi entra in un autobus affollato e cerca uno strapuntino, un angolino in cui sistemarsi e non dare troppo fastidio. Come dar loro torto. L'immaginario giovanilistico è già stato occupato dai quarantenni-cinquantenni, spesso i loro genitori, che continuano a vestire, comportarsi, vivere in un improbabile mondo giovanile. Le questioni esistenziali e religiose sono occupate da poco appetibili anziani o da invasati fondamentalisti. Del lavoro non ne parliamo affatto, è già occupato di chiunque altro. Questo loro basso profilo, però, non va confuso con disinteresse, con alienazione dalla vita. Questi giovani guardano, studiano, si interrogano, tutto in silenzio, senza farsi vedere, senza ostentare. Sono nell'ombra ma ci sono. È difficile capire cosa elaborino davvero nelle loro silenziose riflessioni. Quelle rare volte che mi è capitato di sentirle, però, sulla vita, su Dio, sul futuro, sulla morte, sulle relazioni autentiche, ho trovato quella sensibilità e profondità che non ha nulla da invidiare, e forse molto da insegnare, alle riflessioni dotte e seriose di chi li ascoltava.