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Il 14 Ottobre 2018 la Chiesa riconoscerà la santità di Paolo VI. Il Prof. Marco Vergottini, uno dei maggiori studiosi del Concilio Vaticano II, ci parla di questo importante evento ecclesiale
Domenica 14 ottobre 2018 papa Francesco canonizzerà Paolo VI. Il Centro Culturale San Rocco propone una breve riflessione su questo importante evento ecclesiale ascoltando la voce del prof. Marco Vergottini, docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e uno dei maggiori studiosi italiani del Vaticano II. Inoltre, è stato per circa vent’anni segretario del consiglio pastorale della diocesi di Milano durante l’episcopato del card. Carlo Maria Martini.
1. Prof. Vergottini, il prossimo 14 ottobre papa Francesco canonizzerà Paolo VI. Quale significato ha questo evento per la Chiesa?
La canonizzazione di papa Paolo VI può trovare una suggestiva chiave di lettura nella pericope conclusiva della prima lettera ai Tessalonicesi (5,15-25). Così, ad esempio, l’esortazione «State sempre lieti» (5,16) trova corrispondenza nella lezione di Paolo VI che invita a “saper godere di Dio” («la formula mi sembra bellissima!», commentò il cardinale Carlo Maria Martini); il richiamo «Pregate incessantemente» (5,17) trova corrispondenza in un testo montiniano del 1974 : «Signore Gesù, vorrei essere tutto preso da te, dalla tua presenza, dal tuo servizio»; la raccomandazione «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (5,21) trova corrispondenza in Montini nell’apprezzamento critico per la modernità, con l’obiettivo di penetrare cristianamente la realtà mondana. L’invito, poi, «Fratelli, pregate anche per noi» (5,25) chiede di essere raccolto in occasione della elevazione di Paolo VI agli altari, poiché tutti i credenti possono sentirsi chiamati a proseguire i “dialoghi con Paolo VI”, a interloquire con lui nella preghiera, confidando nella partecipazione dei santi alle vicende di quanti attendono alle vicende terrene.
2. Il ministero pastorale di Montini è ricco di esperienze molto diverse tra loro: il mondo giovanile, soprattutto gli universitari della Fuci, la Segreteria di Stato, l’episcopato milanese e infine gli anni da pontefice. Esiste un filo rosso, un’idea centrale trasversale a questi momenti?
Giovanni Battista Montini, dal fisico esile, nondimeno temprato a sopportare carichi di lavoro impressionanti, fu una personalità poliedrica: umile e schivo, eppure capace di grandi e intense amicizie; credente mistico e insieme paladino delle istituzioni; tanto inflessibile sul piano dei princìpi e intransigente con se stesso, quanto problematico nel giudizio sulla realtà e comprensivo con gli altri; assai prudente in talune aperture d’ordine disciplinare e insieme molto sensibile ai problemi del Terzo Mondo e della pace mondiale. In altre parole, un uomo antico e insieme moderno.
La sua indole riservata e malinconica era accompagnata da un’emotività esuberante, non priva di slanci ardenti, e da una delicatezza del tratto, che nel colloquio personale si traduceva in sguardo paterno, rispetto per l’altro e fiducia nei tempi di Dio. Dotato di una sorprendente capacità intuitiva e di una straordinaria curiosità intellettuale, si dedicò a letture raffinate che spaziavano dalla teologia alla letteratura, dalla filosofia al mondo dell’arte, con il segreto desiderio di tessere un fecondo dialogo fra mondo moderno e cattolicesimo, confidando in una sintesi che conciliasse la polarità di conoscenza e amore.
La sua oratoria e la sua scrittura erano contraddistinte da uno stile letterario personalissimo, ricco di aggettivi e di interrogazioni, gotico e mai ridondante, spoglio di retorica eppure armonioso, tanto raffinato nell’espressione quanto ardito nello scavo argomentativo, con un’originale corrispondenza fra la cura della forma e la profondità del contenuto.
La consapevolezza della complessità che l’interpretazione del reale comporta, nonché la disposizione alla ricerca instancabile delle ragioni del dialogo, confliggevano con il suo ufficio di ecclesiastico chiamato a prendere decisioni di carattere normativo; eppure, nei ruoli di sempre più elevata responsabilità da lui ricoperti, avvertì l’obbligo morale di decidere, in retta coscienza e in piena solitudine, così da discernere la volontà di Dio nel cammino della Chiesa. In questo travaglio interiore egli trovò sostegno e alimento nella preghiera come abbandono in Dio, coltivando uno stupore struggente per la singolarità di Gesù Cristo, nella consapevolezza che al credente è chiesto di consumarsi d’amore in vista del grande abbraccio con il Signore nella vita eterna.
3. Quali sono state, a suo avviso, le sfide maggiori raccolte dal pontificato di Paolo VI?
Paolo VI fu il primo papa a tornare in Palestina, nella terra e sulle orme di Gesù di Nazareth. Accadde nei primi giorni di gennaio del 1964. Fu un viaggio chiaramente simbolico, da tutti seguito con sorpresa e sincero apprezzamento. Decidendolo, Paolo VI esprimeva il suo mondo interiore, la sua spiritualità e teologia, le sue convinzioni più intime. La Chiesa cattolica può essere autentica e compiere la missione che le è propria, soltanto se ricalca le orme di Cristo. Rinnovarsi, per lei, è un dovere continuo: a condizione che il rinnovamento s'identifichi con la conversione. È questo il valore del ritorno alle origini.
Paolo VI fu il primo papa a deporre la tiara e a rinunciare all'uso di essa. Era un segno di giurisdizione e di potere che risaliva a più di mille anni fa. Voleva far intendere che l'autorità del papa non può esser confusa con un potere di natura politica. Poche settimane dopo avrebbe compiuto il viaggio in India, che tanto influenzerà il suo magistero sociale. Rinunciando alla tiara voleva dire che i poveri, anzi i miseri, vanno accostati con rispetto, come nostri pari. Soltanto così si può evitare la più aberrante deformazione: quella di usare i poveri come pretesto per crescere nel proprio potere.
Paolo VI fu il primo papa a varcare la soglia dell'Onu, il 4 ottobre 1965. Non fu un viaggio facile. Non mancarono le critiche. Il suo discorso – «mai più, mai più la guerra!» – fu di portata strategica. Si presentò come un messaggero che finalmente annuncia il Vangelo di pace di Cristo. Istituì la giornata della pace il 1° gennaio di ogni anno, allo scopo di avviare un'opera di educazione permanente alla pace. Fu il papa che decise di abolire la «corte pontificia» e di sciogliere i corpi armati pontifici con un discorso alla nobiltà romana che piacque assai poco ai destinatari.
Fu il papa che si inginocchiò davanti a delinquenti assassini per implorare a favore di un innocente, se non la pietà, almeno un sussulto di umana coscienza. «Vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro». «Lasciate a me», concludeva il papa, «interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova».
4. Qual è il lascito sociale ed ecclesiale che Paolo VI consegna alle nostre generazioni?
Sinteticamente, una rilettura dell’eredità montiniana deve mettere a fuoco almeno questi aspetti: a) la dimensione vocazionale, come totale abbandono alla ricerca della volontà di Dio e all’incontro con il Signore Gesù; b) l’ammirazione per sant’Agostino, maestro nella ricerca di Dio; c) la formazione di coscienze capaci di una forte testimonianza cristiana; d) l’instancabile sforzo di ritessere un legame tra la verità cristiana e il mondo moderno; e) l’impegno per lo sviluppo dei popoli che deve portare a prendersi cura gli uni per gli altri; f) la fedeltà al Concilio Vaticano II, così da innescare un processo di «interiore e personale riforma». E molto ci sarebbe ancora da dire…
A cura del Centro Culturale San Rocco