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Il discorso del Card. Angelo Scola al XXIX° Congresso provinciale delle ACLI di Milano
di Salvatore Cernuzio
ROMA, domenica, 11 marzo 2012 (ZENIT.org) - Per affrontare la crisi economico-finanziaria nazionale, è necessario il contributo di tutti, come in una grande famiglia.
È quanto affermato dal cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, nel suo intervento al XXIX° Congresso provinciale delle ACLI di Milano – Lonza e Brianza, dal titolo “Rigenerare comunità per ricostruire il Paese”, che si è svolto ieri, sabato 10 marzo, nell’Auditorium San Fedele a Milano.
«In tempi di grave emergenza ogni membro è chiamato a dare di più, secondo le sue possibilità» ha affermato il porporato, aggiungendo che per sollevare la nazione «non bastano più le competenze fatte di calcolo e di esperimento, ma occorre un serio ripensamento della ragione economica e politica, come ripetutamente ci invita a fare il Papa».
In questo momento di grave “travaglio”, che riguarda l’intera fase di transizione che il mondo occidentale sta attraversando, torna, quindi, secondo il cardinale, a farsi sentire “testardamente” il peso della persona e delle sue relazioni, nonostante «l’ostinato tentativo di mettere tra parentesi la dimensione antropologica ed etica dell’attività economico-finanziaria».
Sorge, in tal senso, l’interrogativo di quale sia la responsabilità dei cristiani in questa situazione e verso che direzione devono essi muoversi. “Due tappe” per l’Arcivescovo di Milano danno risposta a tali domande: «nella prima, tre indicazioni di metodo che possono sostenere l’azione sociale dei cattolici in questo delicato frangente storico; nella seconda una proposta di azione offerta dal magistero sociale di Benedetto XVI».
Innanzitutto, secondo il card. Scola, il primo nemico da combattere, a favore della ricostruzione di un paese il cui protagonista persegue la vita buona, è l’utopia «il “non luogo”, l’inesistente, che può al massimo indicare aspirazioni di riconciliazione, tolleranza ed unità, ma non consente una reale costruzione». «Anzi, nascendo dall’inevitabile ideologia – ha evidenziato Scola - genera avanguardie che devono applicarla, costi quel che costi, alla realtà e per questo finisce quasi sempre col far ricorso alla violenza».
Contrasta l’utopia, 'l’ideale', ovvero «la verità del reale che sta sempre davanti come un compito con cui bisogna impegnarsi, con umiltà, senza presunzione, comunitariamente».
«L’ideale è un fatto di popolo, l’utopia una questione di avanguardie – ha spiegato il cardinale - è ben diverso affrontare questioni come stili di vita, pace, giustizia, equilibrio del mercato, integrazione degli immigrati ecc, nella prospettiva dell’ideale o in quella dell’utopia».
Scegliendo l’ideale contro l’utopia, il porporato rileva come ne consegua «un atteggiamento decisivo dell’agire sociale cristiano che tende a realizzare l’ideale vita buona ed è libero da ogni tentazione di egemonia sociale», ossia da quell’utilizzo sistematico della verità sociale (cultura, ideale) a proprio favore, a scopo del potere.
La vita buona, dunque, non configura per il cristiano e per la comunità ecclesiale una 'via ulteriore', quella cioè dell’utopia, «ma la partecipazione realistica ad una costruzione comune, all’interno di una società plurale, che esige sempre passione per la verità situata nella storia».
Emerge, da questi cenni, una nuova figura di cristiano: il testimone, «l’uomo che vive per l’ideale, libero dall’esito del suo impegno, e si differenzia totalmente dal cristiano militante».
«Il soggetto militante parte poco o tanto dall’utopia (progetto, piano, programma) e punta all’egemonia mediante l’elaborazione di strategie e tecniche per la sua attuazione - ha precisato -. Il contenuto della testimonianza è invece lo spontaneo comunicarsi di una vita cambiata per grazia, che rigenera comunità e giunge fino al sociale, al civile, al politico».
In quest’ottica, ha sottolineato Scola, l’azione del cristiano «acquista un significato eterno» e fa sì che si avverino le parole del beato Wojtyla nella poesia La cava di pietra, che fa riferimento alla sua esperienza giovanile di lavoratore alle Solvay, dove scrive: «Non temere. Le azioni umane hanno rive spaziose, / non puoi costringerle a lungo dentro un alveo ristretto. / Non temere. Nei secoli durano le umane azioni / in Colui al quale guardi nel ritmo di questi martelli».
Dopo le tre ‘indicazioni di metodo’, l’Arcivescovo di Milano, richiamando il discorso di Benedetto XVI all’Accademia delle Scienze Sociali sul bene comune della società, ha delineato due assi fondamentali: «uno orizzontale, che rappresenta la "solidarietà" e la "sussidiarietà"; e uno verticale, che rappresenta il ‘bene comune’, nel cui punto di intersezione si pone la dignità della persona».
Questo ‘schizzo’ mette in evidenza che: sull’asse orizzontale, «non è possibile rispettare la dignità umana senza aver cura di chi è in difficoltà»; e al contempo «non è possibile una solidarietà autentica senza garantire alle persone una fondamentale libertà di iniziativa».
Sull’asse verticale, invece, bisogna ricordare che il bene comune è «il bene condiviso nella stessa socialità e che, come bene umano che sta a fondamento della società, non ha automatica attuazione ma va voluto e perseguito».
Diventa, quindi, comprensibile perché il Papa, attraverso questo schema, abbia affermato che «la vera solidarietà compie se stessa quando diviene carità e che la vera sussidiarietà compie se stessa lasciando spazio all’amore: perché è qui, nella carità e nell’amore, che Dio “accade” come risposta inaudita alla promessa inscritta nel bene comune immanente».
«Questo progetto ‘architettonico’ è divenuto oggi tanto affascinante quanto impegnativo – ha concluso il cardinal Scola – ma questa difficoltà è parte del problema che l’etica sociale cristiana deve affrontare; nonchè l’urgenza che le Acli, dopo 60 anni di esperienza, possono far propria per guardare al futuro mettendo a frutto il guadagno di tante generazioni di aclisti».
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