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Come formare una nuova generazione di politici cattolici

Mons. Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pacedi Mons. Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace

ROMA, giovedì, 1° settembre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di mons. Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, apparso sull'ultimo numero de “La Società” (www.fondazionetoniolo.it/lasocieta), la rivista di studi e documentazione della Fondazione Toniolo sulla Dottrina sociale della Chiesa.

* * *

Il ripetuto invito del pontefice Benedetto XVI a formare una nuova generazione di politici cattolici (ad es. a Cagliari nel settembre 2008 ma anche nello scorso maggio 2011 nel Triveneto) avviene in un momento cruciale della storia che mostra in Italia e in Europa, non solo la crisi della politica in senso alto, non solo l’avanzamento verso una fase di post-democrazia o, per lo meno, di democrazia populista, ma anche una certa irrilevanza della presenza dei cattolici, disseminati in varie aggregazioni partitiche. Una tale irrilevanza - non solo per ragioni di diaspora, ma anche per un’identità spesso sfuocata, e per debolezza culturale - emerge quale percezione pressoché generalizzata presso le coscienze dei politici cattolici più pensosi, militanti sia in un polo sia nell’altro.

Se il pontefice parla di una «nuova generazione» di politici cattolici non sembra sia per cedimenti nei confronti di una nuova ideologia, quella del «giovanilismo». Nemmeno è per deprezzare, in maniera indiscriminata, gli attuali rappresentanti, mostrando ingratitudine nei loro confronti.

È per motivi molto meno preconcetti e mortificanti. È per incoraggiare a fare meglio e di più rispetto alle urgenze odierne.

Permettete, allora, che mi fermi a giustificare – se mai ce ne fosse bisogno - la pertinenza dell’invito del pontefice. Infatti se si muove dall’assunto, come ha fatto più di uno, che si tratta di una reprimenda ingenerosa e basta e, quindi, se si ritiene che l’invito sia con riferimento ad una realtà inesistente non varrebbe la pena affrontare il tema affidatomi. Detto altrimenti, se le cose, in definitiva, vanno bene così come sono non si deve perdere tempo a riflettere sulla necessità di un particolare impegno formativo.

Ebbene, dal punto di vista di chi vi parla, l’invito del pontefice appare plausibile almeno per queste - e, quindi, ve ne sono altre - ragioni:

a) lo è perché in ogni settore dell’esistenza umana – si pensi anche solo a quello dell’economia, ove specie, ma non solo, per motivi demografici è difficile avere nuovi imprenditori - c’è un naturale ricambio generazionale;

b) lo è perché non tutti gli attuali politici che si dicono cattolici – nonostante impegno e meriti personali – si sono mostrati figure di alto profilo professionale e morale, quale è richiesto dalla propria identità e dalle poste in gioco: tipiche di una società che marginalizza o svaluta la cultura cattolica e avvalla disvalori; tipiche di una situazione politica ed economica molto grave che se non viene affrontata con prospettive e forze nuove, ben formate, a livello italiano ed europeo, rischia di portare tutti al collasso, a possibili esiti antidemocratici;

c) lo è perché occorre, con sempre maggiore urgenza, una particolare sensibilità e dedizione per il bene comune e i beni comuni, ossia occorre una vita retta o buona, pena la strumentalizzazione della politica alla finanza o ad altro;

d) lo è perché urgono politici meno subalterni alle logiche di partiti «personali», autoreferenziali, ma più collegati con la società civile, con il mondo di cui dicono di essere rappresentativi.

Ciò premesso vengo a parlare più specificamente delle condizioni necessarie per la formazione di una nuova generazione di politici cattolici.

Il mondo cattolico sa che quando ci si impegna in un simile tema, il contesto naturale entro cui ci si viene a collocare – e questo segnala già una delle condizioni della formazione – è quello della evangelizzazione del sociale o, meglio della nuova evangelizzazione del sociale, secondo la quale impegnarsi in politica è una forma alta di vivere la carità di Cristo. Mentre ci si interessa, pertanto, delle condizioni della formazione emerge quella secondo cui l’impegno va radicato su un fondamento non solo antropologico ma anche teologico, oltre che ecclesiologico. Interessarsi della formazione politica non è interessarsi di una realtà diabolica, bensì di una dimensione dell’esistenza prevista dal disegno di Dio, facente parte della vocazione cristiana.

Una seconda condizione è rappresentata, a fronte di un mondo in cui c’è carenza di pensiero, dall’impegno di elaborare un nuovo pensiero e una nuova progettualità, cosa che è possibile, secondo la Caritas in veritate, vivendo in comunione con Cristo, Agápe e Lógos. Solo se si disporrà di un nuovo pensiero e di una nuova progettualità sarà possibile impostare un’adeguata formazione che presuppone formatori nuovi e strumenti interpretativi non parziali della realtà politica e dei suoi fini.

Una terza condizione è il rinnovamento dei partiti o, se ciò non riuscisse, la creazione di nuove istituzioni di partecipazione e di rappresentanza. Infatti, si formano nuove leve per inserirle, per immettere energie fresche e nuove, non funzionali al mantenimento dello status quo. Se gli attuali partiti restano chiusi in se stessi, costituendosi in «caste» o in sottosistemi impermeabili, e non si mostrano ricettivi, risulta difficile il ricambio generazionale al loro interno ma anche l’addestramento delle nuove generazioni di politici.

Una quarta condizione è data dall’instaurazione di nuove relazioni e comunicazioni tra mondo politico, ecclesiale e civile. Detto altrimenti, dopo il periodo in cui vi è stato, in Italia, un nesso stretto tra Chiesa e partito della DC, dopo il periodo in cui si è affermata la teoria della diaspora e vi è stata quasi una separazione tra comunità ecclesiale e politica, coltivando preferenzialmente rapporti di vertice, occorre pensare ad una nuova figura di rapporti, che prevedano sia un reale protagonismo del laicato cattolico sia una vita di più intensa comunione con Gesù Cristo, con la comunità ecclesiale, con la sua Dottrina sociale da parte dei politici. Per un verso, nei confronti delle nuove leve in politica, c’è bisogno di una «paternità» da parte dei politici di lungo corso, che impegnino energie e tempo per accompagnare e sostenere nei primi passi e nelle campagne elettorali i più giovani. Ma c’è anche bisogno di una paternità o «maternità» da parte della comunità ecclesiale, di cui vari politici cattolici, prima responsabili di associazioni e movimenti e ora militanti nei partiti, sentono la carenza. A questo proposito, si può affermare che se per un lato c’è bisogno di una nuova generazione di politici cattolici, da un altro lato c’è pure bisogno di una nuova generazione di presbiteri e di guide spirituali che sappiano accompagnare e dialogare con gli amministratori e i rappresentanti presso i parlamenti nazionali e sovranazionali.

Una quinta condizione per la formazione di nuove generazioni di politici cattolici, affinché possano coltivare, con serietà ed efficacia, la dimensione pubblica del cristianesimo, in un contesto di un pluralismo culturale frammentato, segnato da secolarismi aggressivi, è il superamento sia dell’ideologia della diaspora sia del convincimento velleitario che, in campo sociale, sia sufficiente l’unione morale degli intenti senza una qualche unione morale esterna, concretizzantesi in alleanze trasversali o in partiti di ispirazione cristiana.

Decretare, come è stato fatto da parte anche di illustri pensatori cattolici, che, dopo il Concilio Vaticano II, storicamente e teologicamente è improponibile la nascita di partiti di ispirazione cristiana – perché necessariamente si cadrebbe nei cortocircuiti che si ebbero al tempo della DC -, è, dal punto di vista della logica politica, perpetrare uno scippo ed emettere una sentenza di condanna del laicato cattolico allo stato di minorità in politica. Esso è praticamente destinato solo a partecipare ai partiti che fondano gli altri, quasi che i cattolici fossero dei cittadini di serie b e fossero intrinsecamente incapaci di costituirne, assieme ad altri uomini di buona volontà. Il Concilio Vaticano II riconosce, invece, ai credenti una chiara autonomia in politica (cf specie Gaudium et spes, n. 43; Apostolicam actuositatem, n. 7). Una tale autonomia implica anche che i cattolici, valutate le condizioni storiche e le poste in gioco, possano decidere di dare vita a eventuali partiti. Affinché il contributo della visione cristiana non divenga insignificante, ma sia invece ricchezza per tutti, perché non immaginare che tra le vie da percorrere non vi sia, esperita quella della diaspora, anche un’altra soluzione? Su questo punto, evidentemente, sono i cattolici che militano nei vari partiti che per primi debbono fare la loro valutazione. Nessuno può sostituirsi ad essi. Non a caso, oggi pomeriggio, sono previsti gli interventi di alcuni di loro.

Una sesta condizione è data da un impegno corale dei soggetti ecclesiali e civili sul piano culturale e formativo – parecchi hanno sollecitato la nascita di un movimento, per coinvolgere il maggior numero di persone ed istituzioni, non escluse quelle universitarie - che implica, come si può apprendere dall’esperienza del movimento sociale dei cattolici in Europa con Malines e con Camaldoli, il riconoscersi in Codici programmatici, quali quadri di riferimento progettuali da tradursi dapprima in progetti e successivamente in programmi partitici.

Anche oggi c’è bisogno che sul piano nazionale, e ancor più sul piano europeo, ci sia l’impegno dell’elaborazione di nuovi Codici. Senza un previo e ampio movimento culturale, senza nuovi Codici è più difficile che vi sia una coscienza comunitaria che cresce e che si specifica nella stessa opera di formazione di cui qui oggi si parla per sommi capi.

Vale, allora, la spesa fermarsi su questa sesta condizione, per la quale c’è da augurarsi che in un prossimo futuro vescovi, politici, economisti, giuristi, assieme a rappresentanti di movimenti ed associazioni ecclesiali e della società civile, diano vita, sul piano nazionale ed anche europeo, a movimenti di riflessione e di azione, finalizzati ad alimentare una nuova cultura e a riconoscersi in nuovi Codici. Questo, evidentemente, è possibile con raccordi e con regie che vedono implicati tutti i soggetti ecclesiali e civili, senza neutralizzazioni reciproche, senza manovre meschine che immiseriscono il mondo cattolico.

Per quanto concerne l’elaborazione di un nuovo Codice non è da immaginare un’opera titanica. Andare verso un «nuovo» Codice di Camaldoli non significa cominciare da zero oppure intraprendere chissà quale lungo cammino. A dire il vero, esiste già un qualcosa di vicino ad un “codice”, per di più aggiornato, di ampio respiro: è il Compendio della dottrina sociale della Chiesa (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Libreria Editrice Vaticana 2004), che gli amici di Camaldoli non avevano a disposizione, per cui dovettero, in un certo modo, faticare di più per darsi un quadro culturale, una progettualità di riferimento.

Che cosa rappresenta concretamente il Compendio?

Esso offre a noi uno strumento culturale motivato teologicamente, ecclesiologicamente, antropologicamente. Il Compendio, articolato sulle ragioni della fede, su una sapienza riflessiva, offre all’impegno sociale un fondamento razionale e sovrarazionale, abilita a render conto della speranza che è in ogni credente. Esso indica la vie concrete secondo cui la fede si fa cultura, diventa anima di un umanesimo trascendente, vivifica gli ethos e le istituzioni civili all’insegna di una relazionalità fraterna.

Il Compendio – occorre prenderne coscienza – è l’eredità che il beato Giovanni Paolo II ha lasciato per i credenti e gli uomini di buona volontà, per il cammino da compiere gioiosamente nel terzo millennio, prendendo il largo, verso la civiltà dell’amore.

È stato pensato anche perché i cattolici in diaspora potessero unirsi maggiormente ed incidere di più nella storia, grazie ad una grammatica comune, offerta a tutti. Permette di uscire dai deserti, rappresentati da campanilismi, da individualismi, da steccati preconcetti, da sottoboschi della storia. È articolazione della dimensione pubblica del cristianesimo.

È per vivere in un’amicizia riflessiva e progettuale o prospettica, che difende insieme le ragioni della persona e della comunità, le esigenze della libertà e quelle della giustizia.

Concretamente, si tratta di approfondirlo scientificamente, di integrarlo secondo la progettualità elaborata dalla Caritas in veritate, rispetto anche al tema dei mass media; di tradurlo cioè in progettualità storicizzata, con particolare attenzione all’educazione (per questo cf CEI, Educare alla vita buona del Vangelo).

Si tratta soprattutto di tradurlo in linguaggio politico, come soleva ripetere Giuseppe Lazzati parlando della Dottrina sociale che, a suo dire, i cattolici, non si mostravano capaci di valorizzare per la loro azione trasformatrice della società.

Oggi, in particolare, si è chiamati, a fronte di squilibri globali, a realizzare le esigenze della libertà e della giustizia sociale, declinandole secondo la misura alta del bene comune della famiglia umana, innalzando istituzioni proporzionate al nuovo corpo di interconnessioni e di comunicazioni planetarie, secondo i principi della sussidiarietà e della solidarietà. Si è chiamati a globalizzare non solo le istituzioni market, bensì anche quelle no market, come la democrazia sostanziale: sociale, economica, politica, rappresentativa e partecipativa. Occorre formulare politiche economico-sociali finalizzate al bene comune, con particolare attenzione ai più poveri, secondo equità. Si tratta di cogliere e di coniugare, nel contesto del bene comune, i nessi tra etica della vita ed etica sociale – il «popolo della vita» non dev’essere contrapposto al «popolo della pace», e viceversa -, tra economia, fraternità e giustizia sociale, tra ecologia umana ed ecologia ambientale, tra privato e pubblico, tra locale e globale. C’è bisogno di un pluralismo non frammentato, di un multiculturalismo vissuto sulla base della comune ricerca della verità, e di una laicità positiva.

Si deve, pertanto, procedere, più che altro, a indicare abbozzi di politica, secondo le varie aree sociali, corrispondenti in parte anche ai capitoli del Compendio: persona e i suoi diritti e doveri, società civile, famiglia, lavoro umano, vita economica, comunità politica e comunità religiosa, ambiente, boietica, comunità internazionale, pace, mezzi di comunicazione.

Dove trovarli tali abbozzi? Chi li può offrire? I professori universitari? C’è bisogno anche di loro. Ma più che altro tali abbozzi possono essere offerti dalle varie associazioni o aggregazioni che sono impegnate a promuovere determinate soluzioni di progettualità politiche e civili. Basti pensare, in Italia, a ciò che è stato elaborato dalle ultime Settimane sociali dei cattolici, a ciò che hanno elaborato l’Associazione “Scienza e vita”, il Forum delle Associazioni familiari, i Sindacati aconfessionali per i temi del lavoro, le Acli, i gruppi professionali.

Per fare un Codice non occorre mobilitare tutto il mondo cattolico. A Camaldoli non erano presenti moltissimi vescovi, politici, giuristi, pedagogisti. In alcuni momenti storici di attendismo e di disorientamento divengono decisive, come sosteneva ad esempio Jacques Maritain per il suo tempo, minoranze profetiche da choc.

Per questo, ciò che si vuole ribadire qui è che vi siano delle persone o istituzioni disponibili ad alimentare la riflessione, a costruire un nuovo pensiero e una nuova progettualità, a supportare un movimento di movimenti di cui c’è urgenza. Ciò è indispensabile precondizione rispetto al resto. Prima ancora di pensare - o mentre si provvede a pensare - di riformare i partiti o a fondarne, a mettere in cantiere strategie per l’immediato, a proporre riforme dell’attuale legge elettorale italiana, occorre poter disporre di un quadro culturale sufficientemente articolato e rinnovato, nonché di persone rinnovate nei pensieri e nel cuore, ossia preparate, oltre che professionalmente, spiritualmente.

Ecco perché ci si trova qui. Infatti, se si volesse procedere a riformare gli attuali partiti – ossia se non si volessero più i partiti “personali”, autoreferenziali, funzionali a caste politiche, staccati dalla società civile e dai problemi delle persone e si procedesse a ripensare la figura dei partiti rendendola più democratica e partecipativa -, e però non si avesse a disposizione una nuova progettualità sociale, ed anche cittadini e rappresentanti retti, consci della necessità di una vita buona, sarebbe come venire in possesso di strumenti di comunicazione tra base sociale ed istituzioni pubbliche che non possono innovare. Detto altrimenti, si aprirebbero dei canali ove continua a scorrere la stessa acqua di prima, forse inquinata, scarsa, non invece sufficiente e fresca, benefica per le istituzioni e le società.

In breve, un nuovo pensiero e una nuova progettualità, a cui ci ha sollecitati la Caritas in veritate per affrontare meglio anche i problemi di un mondo globalizzato e sperequato, sono condizioni pregiudiziali di ogni processo di rinnovamento e di formazione in Italia ed in Europa.

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