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La tesi della "Decrescita" secondo la Dottrina Sociale della Chiesa nell'analisi dell'economista Stefano Zamagni
ROMA, giovedì, 5 maggio 2011 (ZENIT.org).- La proposta della decrescita felice ha un precedente illustre: la teoria dello stato stazionario per primo elaborata dal grande filosofo ed economista inglese J. S. Mill a metà Ottocento. Mill ha parlato di stato stazionario per significare una situazione in cui il tasso di crescita netto dell’economia è uguale a zero. In seguito, altri economisti e pensatori hanno formulato ipotesi analoghe. Ricordo, tra questi, Nicholas Georgescu Roegen ed il suo programma di “bioeconomia” avanzato negli anni Settanta del secolo scorso. Non ci si deve dunque meravigliare se, di tanto in tanto, la preoccupazione per la sostenibilità e la paura del futuro spingono studiosi di diversa estrazione culturale (ad es., J. S. Mill era un grande liberale) ad avanzare proposte come quella della decrescita felice.
La posizione della Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) si distacca e si differenzia da quest’ultima non tanto sul piano della diagnosi – molti punti della quale sono condivisibili e ormai da tutti accettati – quanto piuttosto su quello della terapia. Per rimanere nella metafora medica, sarebbe come dire: esiste il male serio, ma anziché cercare di curarlo alla radice – come è certamente possibile, anche se difficile – ci si rassegni alla (più o meno lenta) eutanasia del paziente.
Perché la Dottrina sociale della Chiesa non accetta la tesi della Decrescita
La DSC non accetta – né potrebbe farlo – una tale prospettiva di discorso. Vediamo perché. Primo, va precisato che il concetto di sviluppo ha ben poco da spartire con quello di crescita. Etimologicamente, sviluppo significa “liberazione dai viluppi, cioè dai vincoli” che limitano la libertà della persona e delle aggregazioni sociali in cui essa si esprime. Questa nozione di sviluppo viene pienamente formulata all’epoca dell’Umanesimo civile (XV secolo) e decisivo, a tale riguardo, è stato il contributo della Scuola di pensiero francescana: ricercare le vie dello sviluppo significa amare la libertà. Tre sono le dimensioni dello sviluppo umano, tante quante sono le dimensioni della libertà: la dimensione quantitativo-materiale, cui corrisponde la libertà da; quella socio-relazionale, cui corrisponde la libertà di; quella spirituale, cui corrisponde la libertà per.
Non è detto che eliminando la crescita (quantitativa) si abbia più sviluppo (qualitativo)
Nelle condizioni attuali, è bensì vero che la dimensione quantitativo-materiale fa aggio sulle altre due, ma ciò non legittima affatto la conclusione che riducendo (o annullando) la crescita – che riguarda appunto la dimensione quantitativo-materiale – si favorisca l’avanzamento delle altre due dimensioni. Anzi, si può dimostrare – ma non è questa la sede – che è vero il contrario. Ecco perché la DSC (e in special modo la Caritas in Veritate, CV) parla di sviluppo umano integrale, di uno sviluppo, cioè, che deve tenere in armonico e mutuo bilanciamento le tre dimensioni di cui sopra. Ciò si realizza attraverso un mutamento della composizione – e non già del livello – del paniere dei beni di consumo: meno beni materiali, più beni relazionali e più beni immateriali. E’ possibile ciò? Certo che lo è, come il filone di studi dell’economia civile da tempo va dimostrando.
Non la Decrescita ma l’Economia civile
L’antidoto dunque all’attuale modello consumistico – da sempre condannato dalla DSC – non è la decrescita, quanto piuttosto l’economia civile – un programma di ricerca e di pensiero tipicamente italiano che è stato dominante in Europa fino alla metà del Settecento, e da allora è stato obnubilato dal programma di ricerca dell’economia politica. Si notino le differenze: mentre l’economia civile è finalizzata al bene comune, l’economia politica mira piuttosto al bene totale. Laddove quest’ultima ritiene di poter risolvere i problemi della sfera economico-sociale appoggiandosi sui principi dello scambio di equivalenti e di redistribuzione ad opera dello Stato, l’economia civile aggiunge a questi due principi quello di reciprocità, che è il precipitato pratico della fraternità. La grande novità della CV è nell’avere restituito alla fraternità ( cfr. il cap. III) quel ruolo centrale nella sfera dell’economico che la Rivoluzione francese e l’utilitarismo di Bentham avevano completamente cancellato. E’ per questo che la CV sta ricevendo attenzioni e consensi mai registrati in precedenza da una enciclica un po’ ovunque, a partire dal Nord America.
Il mercato non va demonizzato, va umanizzato
Per paradossale che ciò possa apparire, la tesi della decrescita si limita a porre il segno meno al paradigma dell’economia politica, ma non ne costituisce il superamento: è per questo motivo che non la si può ritenere risolutiva dei tanti e gravi problemi che affliggono le nostre società. Se si continua a demonizzare il mercato, questo diventerà davvero un inferno. La sfida invece è quella della sua umanizzazione. La DSC mai potrà accettare regressioni di sorta: chi coltiva la concezione del tempo come kairos, e non già comechronos, sa che le difficoltà si superano mutando la prospettiva di sguardo sulla realtà – come ci ricorda la celebre frase di San Francesco – e non con operazioni che riporterebbero indietro le lancette della storia. Se si può capire la tentazione del ritorno “all’antico”, non la può certo giustificare chi – come la DSC – accoglie in pieno un’antropologia personalista che, mentre rifiuta l’individualismo, non può abbracciare la sponda opposta, quella del comunitarismo. In entrambi i casi, l’esito finale sarebbe infatti il nichilismo. C’è da augurarsi che coloro che, in buona fede, si battono per la decrescita felice arrivino a comprendere il punto qui delucidato, sia pur in breve.
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