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Nella terza predica di Quaresima nella cappella Redemptoris Mater
ROMA, venerdì, 8 aprile 2011 (ZENIT.org).- Il gossip è una delle cose che più inquinano i rapporti umani e ne mettono in luce spesso l'ipocrisia, mentre essi dovrebbero essere improntati a una carità senza finzioni. E' questo uno dei passaggi chiave della riflessione tenuta questo venerdì da padre Raniero Cantalamessa nella cappella Redemptoris Mater, e incentrata sul tema della vera natura della carità.
Nel corso della terza predica di Quaresima, pronunciata alla presenza di Benedetto XVI, il predicatore della Casa Pontificia ha notato che al giorno d'oggi “il pettegolezzo ha cambiato nome, si chiama gossip e sembra diventato una cosa innocente” ed ha sottolineato che “non basta non sparlare degli altri; bisogna anche impedire che altri lo facciano in nostra presenza, far loro capire, magari silenziosamente, che non si è d’accordo”.
“In molti locali pubblici – ha aggiunto ironicamente – una volta c’era la scritta: 'Qui non si fuma', o anche 'Qui non si bestemmia'. Non sarebbe male sostituirle, in alcuni casi, con la scritta: 'Qui non si fa pettegolezzo!'”.
Infatti, a unire gli uomini dovrebbe essere “un amore sincero”, “un amore fattivo, un amore del cuore e un amore, per così dire, delle mani”.
A questo proposito padre Cantalamessa ha richiamato l'avvertimento di san Paolo nella seconda parte della Lettera ai Romani: “La carità non abbia finzioni [...]; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda”.
Ed è l’apostolo stesso a ricordare che “il più grande atto di carità esteriore - il distribuire ai poveri tutte le proprie sostanze - non gioverebbe a nulla, senza la carità interiore”, sarebbe “carità ipocrita, [...] che non ha un corrispettivo nel cuore”, ma “che può, al limite, nascondere egoismo, ricerca di sé, strumentalizzazione del fratello, o anche semplice rimorso di coscienza”. Quindi, “la benevolenza viene prima della beneficenza”.
Inoltre, ha avvertito il cappuccino, “sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro carità del cuore e carità dei fatti, o rifugiarsi nella carità interiore, per trovare in essa una specie di alibi alla mancanza di carità fattiva”.
“Del resto – ha proseguito –, dire che, senza la carità, 'a niente mi giova' anche il dare tutto ai poveri, non significa dire che ciò non serve a nessuno e che è inutile; significa piuttosto dire che non giova 'a me', mentre può giovare al povero che la riceve”. “Non si tratta, dunque, di attenuare l’importanza delle opere di carità, quanto di assicurare a esse un fondamento sicuro contro l’egoismo e le sue infinite astuzie”.
Per essere genuina, quindi, la carità cristiana deve “partire dall’interiore, dal cuore; le opere di misericordia dalle 'viscere di misericordia'”. Tuttavia, questo “spostare l’accento dalla pratica esteriore della carità alla pratica interiore” è solo un primo passo perché “l’interiorizzazione approda alla divinizzazione!”. “Quando un cristiano ama così, è Dio che ama attraverso di lui; egli diventa un canale dell’amore di Dio”.
“Il primo ambito di esercizio della carità, ha poi spiegato, deve essere la Chiesa e più concretamente ancora la comunità in cui si vive, le persone con cui si hanno relazioni quotidiane”. E “un ambito importante su cui lavorare è quello dei giudizi reciproci”.
Gesù, ha ricordato padre Cantalamessa, aveva detto: “Non giudicate, per non essere giudicati. [...] Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?”.
Eppure, ha osservato, “il giudizio è implicito in noi perfino in uno sguardo. Non possiamo osservare, ascoltare, vivere, senza dare delle valutazioni, cioè senza giudicare”. Tuttavia, “non è tanto il giudizio che si deve togliere dal nostro cuore, quanto il veleno dal nostro giudizio! Cioè l’astio, la condanna”.
“Per sé, il giudicare è un’azione neutrale, il giudizio può terminare sia in condanna che in assoluzione e in giustificazione – ha concluso –. Sono i giudizi negativi che vengono ripresi e banditi dalla parola di Dio, quelli che insieme con il peccato condannano anche il peccatore, quelli che mirano più alla punizione che alla correzione del fratello”.
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