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Un tema chiave dell'ultimo libro di Benedetto XVI
di Rafael Palomino
MADRID, mercoledì, 13 aprile 2011 (ZENIT.org).- Nel suo secondo libro su “Gesù di Nazareth”, pubblicato di recente, il Papa non solo offre una riflessione teologica ed esegetica di prim’ordine, ma invita anche a riflettere su altri aspetti cruciali. Uno di questi è l’analisi del processo di Gesù davanti a Pilato. Soffermiamoci su questo.
La civiltà occidentale non può essere compresa senza il caleidoscopio nel quale si scompongono i grandi processi che la formano. Così, per esempio, nel primo quarto del XX secolo, l’Occidente si risveglia dall’incubo totalitario, attraverso i processi di Norimberga, che ricordano l’esistenza di esigenze morali ed etiche superiori a qualsiasi diritto positivo.
Molto tempo prima (II secolo a.C.), lo scontro verbale tra Cicerone e Catilina ricorda l’importanza del rispetto dell’etica nelle questioni pubbliche e i presupposti del potere legittimo. Infine, il processo a Socrate, ad Atene (IV secolo a.C.), ci colloca improvvisamente di fronte al valore della critica della ragione ai costumi sociali.
Tra tutti questi, il processo di Gesù davanti a Pilato occupa il posto centrale. Chi erano gli accusatori? Qual era il vero motore del processo? Che posto occupa la verità nel grande tema della giustizia legale?
Tre risposte chiave
La risposta di Benedetto XVI alla prima domanda si è meritata il ringraziamento del popolo ebraico. La parte dell’accusa non era rappresentata da Israele nel suo insieme, ma solo da determinati ambienti sacerdotali e da un piccolo e fanatico gruppo di seguaci di Barabba. La seconda questione, in Benedetto XVI, punta dritto al fatto che Gesù ha cambiato il mondo: ha separato la dimensione religiosa da quella politica. Una separazione che, per il Papa, appartiene realmente “all’essenza” del nuovo cammino cristiano. Il terzo tema richiede un po’ più di attenzione.
Di fronte alla domanda di Pilato: “Che cos’è la verità?”, Benedetto XVI ricorda che il procuratore romano non è “l’unico che ha lasciato a margine questa questione come irrisolta e, per i suoi propositi, impraticabile. Anche oggi è considerata scomoda, tanto nella contesa politica come nella discussione sulla formazione del diritto”.
Certamente, per il diritto la domanda sulla verità è fondamentale. Forse proprio per questo, e precisamente dalle istanze democratiche, si afferma che i diritti fondamentali, tra cui il diritto a un “giusto” processo, dovrebbero essere riscattati dalle pressioni delle minoranze e dalle imposizioni delle maggioranze politiche.
Rappresentando un nucleo di valori essenziali, essi devono rimanere fuori dagli schemi politici di un colore o di un altro. Come ha detto Spaemann, “la comunità giuridica non è una sorta di ‘closed shop’, le cui condizioni di ammissione e di esclusione sono fissate dalla maggioranza dei membri”. Per esempio, una maggioranza, per quando grande essa sia, non ha alcun diritto di decidere sul diritto a esistere di una minoranza.
Anni fa, quando Benedetto XVI era ancora cardinale osservava che “le decisioni maggioritarie non perdono la loro condizione veramente umana e responsabile quando presuppongono un substrato fondamentale di umanità e quando lo rispettano come vero bene e condizione per tutti gli altri beni”.
Le osservazioni, prima del cardinale Ratzinger, e ora di Benedetto XVI contrastano direttamente con la visione giuridica che, prescindendo dalla verità, basa il diritto sul potere, sulla forza numerica dei voti. Questa linea di pensiero (mi riferisco al positivismo giuridico, frutto del relativismo di fronte alla verità oggettiva) oggi tenta di occupare tutto il terreno legale, compreso lo storico processo di Gesù davanti a Pilato.
Relativismo e positivismo giuridico
Forse è stato il giurista austriaco Hans Kelsen a porre la questione nel modo più radicale. Quando, dalla sua visione normativistica, considera la domanda del procuratore romano sulla verità, non esita a prendere la parte che poi alla fine prenderà Pilato. Queste sono le sue parole: “E posto che Pilato, un relativista scettico, non sapeva cosa fosse la verità, la verità assoluta in cui credeva quell’uomo, conseguentemente, ha proceduto in modo democratico, sottoponendo la decisione sul caso al voto popolare” (H. Kelsen, “¿Qué es la Justicia?, Barcelona, 1992).
Certamente non manca di provocare un certo “brivido giuridico” questa rinuncia alla verità che consegna la giustizia nelle mani di una maggioranza tante volte manipolabile (come si deduce anche dal racconto evangelico). Il relativismo – quello di allora e quello di oggi – finisce, alla fine, per rinunciare a sapere ciò che è giusto, aggrappandosi a un intreccio di sotterfugi procedurali che difficilmente possono celare la pressione del più forte sul più debole.
Il Papa si è riferito in modo esplicito e profondo a tali questioni, in occasione del suo discorso alla Commissione teologica internazionale, il 5 ottobre 2007. Diceva allora Benedetto XVI: “Presso non pochi pensatori sembra oggi dominare una concezione positivista del diritto. Secondo costoro, l'umanità, o la società, o di fatto la maggioranza dei cittadini, diventa la fonte ultima della legge civile. (...) Alla radice di questa tendenza vi è il relativismo etico, in cui alcuni vedono addirittura una delle condizioni principali della democrazia, perché il relativismo garantirebbe la tolleranza e il rispetto reciproco delle persone. Ma se fosse così, la maggioranza di un momento diventerebbe l’ultima fonte del diritto. La storia dimostra con grande chiarezza che le maggioranze possono sbagliare. (...) Quando sono in gioco le esigenze fondamentali della dignità della persona umana, della sua vita, dell'istituzione familiare, dell'equità dell'ordinamento sociale, cioè i diritti fondamentali dell'uomo, nessuna legge fatta dagli uomini può sovvertire la norma scritta dal Creatore nel cuore dell'uomo”.
Mi permetto una citazione un po’ più estesa, proprio perché spiega nitidamente lo scollamento giuridico dalla questione cruciale anche teologica che il Papa Ratzinger pone quando esamina il processo di Gesù.
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