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La nobile semplicità delle vesti liturgiche

Vesti liturgicheRubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

ROMA, mercoledì, 17 novembre 2010 (ZENIT.org).- La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come «lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione. Il pensiero cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla Sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica come ausiliaria, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria teologica.

Questo insegnamento risuona nell’omelia del Santo Padre Benedetto XVI durante la Santa Messa con dedicazione della chiesa della Sagrada Familia a Barcellona (7 novembre 2010): «La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo». La bellezza divina si manifesta in modo del tutto particolare nella sacra liturgia, anche attraverso le cose materiali di cui l’uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali: l’edificio del culto, le suppellettili, le vesti, le immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse.

Va riletto in merito il quinto capitolo sul «Decoro della celebrazione liturgica» nell’ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia di Papa Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove egli afferma che Cristo stesso ha voluto un ambiente degno e decoroso per l’ultima cena, chiedendo ai discepoli di prepararla nella casa di un amico che aveva una «sala grande e addobbata» (Lc 22,12; cf. Mc 14,15). L’enciclica ricorda anche l’unctio di Betania, un evento significativo che precorse l’istituzione dell’Eucaristia (cf. Mt 26; Mc 14; Gv 12). Di fronte alla protesta di Giuda che l’unzione con olio prezioso costituisse uno «spreco» inaccettabile, viste le necessità dei poveri, Gesù, senza diminuire l’obbligo della carità concreta verso i bisognosi, dichiara il suo grande apprezzamento per l’atto della donna, perché la sua unzione anticipa «quell’onore di cui il suo corpo continuerà ad essere degno anche dopo la morte, indissolubilmente legato com’è al mistero della sua Persona» (Ecclesia de Eucharistia, n. 47). Giovanni Paolo II conclude che la Chiesa, come la donna di Betania, «non ha temuto di “sprecare”, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia» (ivi, n. 48). La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore.

In fondo, la cura attenta per le chiese e per la liturgia deve essere un’espressione dell’amore per il Signore. Anche in un luogo dove la Chiesa non ha grandi risorse materiali, non si può tralasciare questo compito. Già un papa importante del Settecento, Benedetto XIV (1740-1758) nella sua enciclica Annus qui (19 febbraio 1749), dedicata soprattutto alla musica sacra, ha esortato il suo clero affinché le chiese fossero ben tenute e dotate di tutte gli oggetti sacri necessari per la degna celebrazione della liturgia: «Teniamo a sottolineare che non parliamo della sontuosità e della magnificenza dei sacri Templi, né della preziosità delle sacre suppellettili, sapendo anche Noi che non si possono avere dappertutto. Abbiamo parlato della decenza e della pulizia che a nessuno è lecito trascurare, essendo la decenza e la pulizia compatibili con la povertà».

La Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si è pronunciata in modo simile: «Nel promuovere e favorire una autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri» (Sacrosanctum Concilium, n. 124). Questo passo si riferisce al concetto della «nobile semplicità», introdotto dalla stessa Costituzione al n. 34. Questo concetto pare originare dall’archeologo e storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), secondo il quale la scultura classica greca era caratterizzata da «nobile semplicità e quieta grandezza». All’inizio del Novecento il noto liturgista inglese Edmund Bishop (1846-1917) descriveva il «genio del Rito Romano» come contrassegnato da semplicità, sobrietà e dignità (cf. E. Bishop, Liturgica Historica, Clarendon Press, Oxford 1918, pp. 1-19). Questa descrizione non è priva di merito, ma bisogna essere attenti alla sua interpretazione: il Rito Romano è «semplice» in confronto agli altri riti storici, come quelli orientali che sono distinti da grande complessità e sontuosità. Però, la «nobile semplicità» del Rito Romano non si deve confondere con una fraintesa «povertà liturgica» ed un intellettualismo che possono condurre alla rovina della solennità, fondamento del Culto divino (cf. il contributo essenziale di san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae III, q. 64, a. 2; q. 66, a 10; q. 83, a. 4).

Da tali considerazioni risulta evidente che i paramenti sacri debbono contribuire «al decoro dell’azione sacra» (Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 335), soprattutto «nella forma e nella materia usata», ma anche, pur in modo misurato, negli ornamenti (ivi, n. 344). L’uso delle vesti liturgiche esprime l’ermeneutica della continuità, senza escludere un particolare stile storico. Benedetto XVI fornisce un modello nelle sue celebrazioni, quando indossa sia le casule di stile moderno che, in qualche occasione solenne, le pianete “classiche”, usate anche dai suoi predecessori. Così si segue l’esempio dello scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, paragonato da Gesù ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro nova et vetera (Mt 13,52).
 

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