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Dieci parole per la musica liturgica: "Eccellente"

Musica liturgicaDi Aurelio Porfiri, professore associato di musica liturgica e direttore di coro

ROMA, martedì, 23 novembre 2010 (ZENIT.org).- Eccellente. Qui bisogna fare attenzione al senso che si dà a questa parola. Dire che la musica per la liturgia deve essere buona musica è una cosa scontata. Meno scontata è la risposta quando si domanda a molti musicisti in cosa consiste questa bontà. Infatti, spesso per i nostri cari musicisti questa bontà coincide con la musica che fanno loro. Ora, questo può essere vero in alcuni casi ma non, ovviamente, in tutti.

La parola “eccellente” (dal latino Ex-cellere, spingere fuori) ci dice soprattutto un qualcosa di molto importante: la musica liturgica deve essere frutto di uno sforzo di perfezione, essa deve tendere alla perfezione, come tutto, in funzione della perfezione del Padre Celeste. Per questo la faciloneria non le si addice. Per spingere fuori, o spingere oltre, si deve essere nel luogo da cui si spinge. Questo luogo è la tradizione ecclesiale tramandataci dai millenni di storia. Per spingerla oltre bisogna trovarcisi dentro e per trovarcisi dentro bisogna praticarla e studiarla. Non si può migliorare che dal di dentro. Dal di fuori si fanno solo inutili giri di palazzo. Ecco perché la parola “eccellente” mi sembra molto significativa per la musica liturgica e comprende anche la “bontà di forme” invocata da san Pio X nel suo Motu Proprio come qualità della musica di chiesa:

“Deve essere arte vera, non essendo possibile altrimenti che abbia sull’animo di chi l’ascolta quell’efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni”.

Certo, ci possono essere diverse opinioni su cosa si intende per arte vera, ma io credo che nessuno può negare che il bagaglio tecnico sia momento necessario ed imprescindibile per raggiungere l’efficacia artistica. Forse dovremmo considerare questo punto in contrasto con alcuni orientamenti moderni, dove il criterio è quello dello spontaneismo. Purtroppo non si considera che la spontaneità, se correttamente intesa, è un grande valore. Quanta musica o arte dei grandi ci sembra spontanea, uscita fuori senza fatica o sforzo alcuno. Ma noi sappiamo anche che per raggiungere questa semplicità ci vogliono anni e anni di lavoro. Viva la spontaneità come approdo finale, ma attenzione allo spontaneismo che sta alla prima come il sentimento al sentimentalismo. Lo studioso Jeremy S. Biegbe, in suo bel libro chiamato “Theology, Music and Time” chiama un capitolo in cui parla di improvvisazione “liberating constraint”, “obbligazione che libera”. Credo che questa frase potrebbe descrivere il processo di cui parlo. Per essere liberi, spontanei, semplici bisogna prima costringersi, proprio perché di partenza siamo limitati, lo studio ci porta ad aprire nuovi spazi rispetto a quelli angusti del nostro piccolo mondo. Quindi non faccio una questione di titoli accademici, non è che chi non ha certi titoli per forza è peggio di chi ce li ha. E’ una questione di metodo che si acquista tramite lo studio accademico con conseguente titolo ma anche senza di questo. Per secoli musicisti e pittori hanno fatto a meno di titoli accademici ma imparavano l’arte facendola.

L’approdo della vita cristiana è la santità. Non c’e’ dubbio che la vita liturgica sia una via alla santità e così lo è la musica per la liturgia. Se pur essa è tecnicamente perfetta, ma non è “per la liturgia”, non serve allo scopo, non ha quella efficacia ricordata da san Pio X. Ricordiamo come il nesso “musica e liturgia” è inscindibile se si vuole veramente capire il ruolo di questa forma espressiva nell’atto di culto. Non mi nascondo che questa relazione non è a due, ma a tre e il terzo polo di questo triangolo è la cultura. Ma su questo si dovrà tornare in seguito perché tema troppo vasto e delicato. Dicevamo che la musica per la liturgia deve essere santa. Questa non è una novità, già san Pio X lo diceva nel famoso Motu Proprio:

“Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanita’, non solo in se medesima, ma anche nel modo onde viene proposta da parte degli esecutori”.

Questo, al numero 112, la Costituzione Conciliare Sacrosanctum Concilium, anche lo dice chiaramente:

“La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d’inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne. Il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra Scrittura, sia dai Padri, sia dai romani Pontefici; costoro recentemente, a cominciare da S. Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel culto divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia dando alla preghiera un’espressione più soave e favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggiore solennità i riti sacri”.

Questo punto meriterebbe un commento quasi parola per parola, ma per il momento basta soffermarsi sulla frase “la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica”: la qualità della musica viene dalla sua capacità di farsi preghiera liturgica. Ma la preghiera liturgica è il momento più alto della vita cristiana, Culmine e Fonte. Quindi la musica non può che essere eccellente, non puo’ che porsi come momento di superamento del quotidiano pur servendosi degli strumenti del quotidiano. Il liturgista Roberto Tagliaferri dice con efficacia:

“Il linguaggio nasce da uno scarto, da una differenza tra noi e le cose, da una breccia incolmabile, che se da una parte ci impedisce la perfetta identità con noi stessi e col mondo, perché ci sentiamo senza sosta buttati fuori, verso le cose, dall’altra questo compito inesausto di superare il limite ci apre all’illimitato, che intravediamo dietro al limite. Questa è la maledizione, ma anche la grandezza dell’uomo. Egli pensa di colmare definitivamente questa breccia, di poter trasgredire definitivamente il limite e riconquistare la sua origine: questa è la sua dannazione, perché egli rischia di trasformare una mediazione culturale-linguistica in un assoluto. Nel linguaggio però l’uomo può anche sperimentare l’illimitato, la presenza dell’assoluto, perché in ogni acquisizione parziale si trova rilanciato verso un inedito traguardo, secondo un dinamismo senza soluzione di continuità: questa è la sua singolare grandezza” (La Violazione del Mondo. Ricerche di Epistemologia Liturgica. C.L.V. Pag., 214).

Attraverso il limite ci incamminiamo nell’illimitato. Ma, come detto sopra, questo linguaggio deve possedere lo “scarto simbolico”, servirsi dei mezzi del quotidiano ma non facendosi “quotidiano”. Ecco la soluzione a molti dei problemi della musica liturgica, se solo si capisse questo. Nessuno condanna la musica pop o di consumo. Personalmente anche la ascolto e la trovo piacevole. Ma so fare una differenza fra quello che ascolto nella mia vita quotidiana e ciò che devo ascoltare nella liturgia, proprio per la natura particolare e “terribile” di questa azione rituale. Congiungersi alla Tradizione viene spesso solo inteso in senso temporale ma in realtà è un processo spirituale: significa, come detto da don Tagliaferri, “riconquistare l’origine”, significa ristabilire l’ordine sfigurato dal peccato. Ecco perché il quotidiano non suona bene. La musica liturgica, perché liturgica, vive la tensione fra l’origine e il compimento, essa non vuole il presente ma vuole l’eterno. L’essere liturgico “anima” la musica, le dà una vita soprannaturale. Essa, quando unita all’azione liturgica (tanto più santa…) ci rappresenta l’ordine primordiale ferito dal disordine del peccato. Il filosofo Erich Przywara ci dice che l’arte cristiana è “sospesa tra eternita’ e caducita’” (Bello, Sacro, Cristiano in La Filosofia dell’Arte Sacra). Essa è cosmica. Forse un nome nuovo, che mai nessuno ha tentato sarebbe “musica cosmica”. Qui ci dobbiamo abbandonare alla riflessione di Divo Barsotti:

“Nelle religioni asiatiche lo spazio sacro si impone sempre per il culto, ma non necessariamente uno spazio chiuso; nel tantrismo, per esempio, vi è lo spazio in cui viene celebrato un certo culto, riconsacrato dallo sciamano o dal sacerdote; ma questo spazio non è chiuso. Perché, invece, nella religione jahvista, e non soltanto in questa, lo spazio è chiuso, difeso da mura e chiuso in alto? Perché il cosmo stesso è chiuso. Kosmos dice ordine, non dice uno spazio senza confine. C’è un confine preciso. E’ un ambiente, è una casa, è un regno in cui l’uomo deve trovarsi, deve abitare e deve regnare. Anche lo spazio sacro della religione sciamana ha dei confini precisi: lo stregone segna i confini dello spazio sacro, però non ci sono mura a difesa di questo spazio. Questo spazio non è chiuso. L’essere chiuso mi sembra che sia un richiamo all’ordine che è proprio del cosmo – tutto converge verso l’unità. Ma non è soltanto ordine: dice qualcosa di concluso perché perfetto in sé” (La Messa. p. 22-23).

Musica liturgica è ristabilire l’ordine un tempo perduto. Essa ristabilendo l’ordine scompagina il disordine in cui viviamo e che noi pensiamo sia la vita vera. Ecco perché Divo Barsotti sempre ripeteva che la vita vera è Cristo, la nostra non è che apparenza. Ecco il potere dell’arte e della musica: con la materia, smaterializza la materia.

 

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