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In un incontro sulle sfide della Chiesa di fronte all'Islam e all'Occidente secolarizzato
di Mirko Testa
CASPERIA, sabato, 31 luglio 2010 (ZENIT.org).- L'infedeltà del clero e la perdita di identità dei cristiani rappresentano un pericolo maggiore delle persecuzioni. E' uno dei passaggi chiave della riflessione che l'arcivescovo Velasio De Paolis, religioso della Congregazione dei Missionari di San Carlo Borromeo (meglio noti come Scalabriniani) e presidente della Prefettura degli Affari economici della Santa Sede, ha tenuto il 30 luglio scorso in occasione di un incontro pubblico svoltosi nell'antico borgo di Casperia, in provincia di Rieti.
Il tema di partenza era “La Chiesa nelle posizioni di confine: Islam, Oriente, Occidente secolarizzato. Tra prove e persecuzioni”.
Incalzato dalle domande dei presenti nonché del moderatore, il giornalista de “La Stampa” Raffaello Masci, l'arcivescovo originario di Sonnino, in provincia di Latina, che compirà 75 anni il 19 settembre prossimo, ha passato in rassegna alcune delle principali sfide che interpellano la Chiesa odierna, a partire dalle difficoltà affrontate dai cristiani nei Paesi a maggioranza musulmana.
Il sangue dei martiri
All'inizio del dibattito è stato ricordato un recente fatto di sangue accaduto in Pakistan, e che ha avuto come protagonisti due fratelli, Rashid Emmanuel e Sajid Masih, vittime della follia fondamelista a Faisalabad, nella provincia del Punjab.
I due uomini sono stati, infatti, freddati a colpi di arma da fuoco, il 19 luglio scorso, sotto gli occhi di molti testimoni e di tre poliziotti, all'uscita del tribunale che li aveva scagionati dall'accusa di essere gli autori di un opuscolo contro il profeta Maometto. Un reato in Pakistan che la legge antiblasfemia punisce con la pena di morte.
A questo proposito, il presule ha osservato che “la Chiesa ha sempre subìto persecuzioni fin dal suo nascere e che l'evangelizzazione di ogni paese ha sempre comportato il martirio”.
Anzi, ha precisato parafrasando il padre domenicano Yves Congar, “la Chiesa nella sua lunga storia è stata molto più vittoriosa nelle difficoltà che nel gestire i propri trionfi”.
“Il Novecento, in particolare, è stato il secolo che ha subito la peggiore persecuzione – ha proseguito –. E questo è un dato di fatto di fronte al quale, però, l'opinione pubblica occidentale è quasi sorda, di una sordità assordante”.
Analizzando la concezione che il cristianesimo ha del martirio, l'arcivescovo ha spiegato che con esso “non viene messa in luce tanto la malvagità dell'uomo quanto la capacità di una persona umana di fare l'offerta della propria vita”.
“Nel martirio – ha aggiunto – noi non vediamo primariamente la triste vicenda umana che si ripete con le sue storie di ingiustizia ma vediamo la vittoria dell'amore sull'odio e sulla morte. E' questa la grande novità cristiana”.
“Gesù – ha continuato mons. De Paolis – ha fatto dono della sua vita e proprio nella sua morte ha mostrato il suo amore per noi; ha spalancato il nostro orizzonte all'eternità, infondendoci una vita nuova, una speranza nuova che ci permette di vivere al di là”.
Il presule ha quindi richiamato l'esempio di san Pietro Chanel (1803-1841), il primo martire dell’Oceania. Il missionario francese della Società di Maria andò infatti ad annunciare il Vangelo su Futuna, una delle isole delle Fiji, e riuscì a convertire il figlio del re, che per tutta risposta ne ordinò l’uccisione. In seguito tutti gli isolani abbracciarono la fede cristiana.
“La Chiesa non li manda al martirio ma sa che nel martirio si rivelerà la forza più efficace della loro testimonianza apostolica – ha spiegato mons. De Paolis – . Questo fa sì che la Chiesa pur soffrendo per tutti i cristiani che ogni anno muoiono, non considera questo il più grande danno della sua vita”.
Il presule ha quindi posto l'accento su quello che viene avvertito come il problema più pressante e cioè l'apostasia del clero: “Il Papa esige giustamente il riconoscimento dei diritti e il rispetto per i cristiani ma soprattutto denuncia l'infedeltà che c'è all'interno della Chiesa”.
Tuttavia, ha precisato, “la testimonianza cristiana non si identifica con il martirio. Il martirio è una manifestazione suprema ma la pratica quotidiana del cristianesimo è la carità, l'amore. Perché l'amore è superare se stessi è uscire da se stessi, fare dono di se stessi che è qualcosa che facciamo ogni giorno quando perdoniamo all'altro, quando dimentichiamo l'offesa”.
Al di là del bene e del male
La discussione si è poi spostata sui temi di attrito tra la Chiesa e la società moderna, con particolare riguardo alla questione della laicità dello Stato e alla crescente secolarizzazione in atto in Occidente.
Ragionando su questi punti il presule ha chiarito da subito che “tra Stato e Chiesa non c'è concorrenza, ma complementarietà”, perché “l'uomo non si esaurisce nel tempo e non ha solo finalità temporali ma ha bisogno di verità, di grazia, di vita eterna”.
“Il problema qui, però, non è esclusivamente di carattere religioso – ha quindi tenuto a precisare –. Il problema radicale è sapere se esiste una verità e se esiste una distinzione tra il bene e il male. Il problema di fondo è la questione antropologica”.
“Ecco allora che la Chiesa entra nella nostra vita con un fine specifico, con un settore ben preciso, non invade lo Stato – ha affermato – . Lo Stato laico non vuol dire però agnostico, miscredente, senza religione. La religione fa parte della dimensione umana”.
Ciò che si nota, invece, ha commentato mons. De Paolis, è da una parte la tendenza della società odierna a relegare la voce cattolica nella sfera privata e dall'altra il timore da parte dei cattolici a intervenire nei dibattiti pubblici per non ferire le sensibilità altrui: “noi, oggi, in nome di una fraternità rinunciamo a una identità”.
Per questo il presule ha invitato a “non prendere in modo assoluto frasi come 'porgere l'altra guancia'. Il cristiano, sempre nel rispetto dell'altro, non deve mai rinunciare alla propia identità, deve innanzitutto annunciare la fede e poi agire da cristiano che è un agire divino, cioè un comportamento nel quale si rivela che l'uomo supera se stesso”.
Ciò che caratterizza, allora, le sfide dei tempi attuali è la discussione sul “senso stesso dell'esistenza umana, sul senso stesso dell'uomo, del suo destino: l'uomo secolarizzato non è più l'uomo-immagine di Dio. E' un animaletto come gli altri. Difatti oggi abbiamo elevato anche gli animali alla dignità umana”.
Questa, ha concluso il presule, è una deriva della secolarizzazione che “è la forma estrema di una visione della vita da cui scompare la trascendenza, e che confonde e identifica tutto con l'immanentismo”.
Da qui il pericolo che “la secolarizzazione, implicando una concezione della vita come realtà del tempo presente, porti a una chiusura al mistero di Dio e al mistero dell'uomo”.
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