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Ho conosciuto in profondità Mons. Gennaro Franceschetti
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Nel decimo anniversario della scomparsa dell'indimenticato Pastore della Chiesa Fermana, l'Arcivescovo Luigi lo ricorda evocando, nello stile di semplicità che gli era caro, immagini, parole, suggestioni e intuizioni che per tutti noi sono una segnaletica utile ad indicare la strada e la meta, che il Signore riserva ad ogni viandante che si mette alla sua sequela

Posso attestare di aver conosciuto in profondità l’Arcivescovo Gennaro Franceschetti negli ultimi giorni della sua vita, quando anch’io mi sono fatto “pellegrino”, insieme al suo e poi mio popolo. Mi sono inginocchiato e gli ho chiesto di benedirmi e, a mia volta, l’ho benedetto accanto a quel letto di dolore dove si stava svolgendo un agon, una  lotta, una sfida in cui l’avremmo visto vincitore.

Vincitore perché la morte lo ha trovato vivo, in piedi, pronto con la lampada della Fede accesa.

Mi ha colpito il fatto che in quel momento non solo lui, ma anche il popolo fermano fosse stato “toccato da Dio” attraverso quell’avvenimento imprevedibile.

Quell’agonia, e poi quella morte, ci avrebbero provocato una serie di domande, soprattutto una: che significa essere pastore, guida, anima di un popolo? Domanda quotidiana per un vescovo, un prete, una guida. Domanda a cui possono seguire risposte diverse caratterizzate dalla storia, dai percorsi, dalle sensibilità, dai caratteri e carismi di chi viene “inviato” a “confermare” e rafforzare la fede di un popolo.

Ho visto in quei giorni anticipate le parole di Papa Francesco quando al primo incontro con noi Vescovi italiani ci raccomandò: “essere Pastori significa credere ogni giorno nella grazia e nella forza che ci viene dal Signore, nonostante la nostra debolezza, e assumere fino in fondo la responsabilità di camminare innanzi al gregge, sciolti da pesi che intralciano la sana celerità apostolica, e senza tentennamenti nella guida, per rendere riconoscibile la nostra voce sia da quanti hanno abbracciato la fede, sia da coloro che ancora «non sono di questo ovile» (Gv10,16). Per questo, essere Pastori vuol dire anche disporsi a camminare in mezzo e dietro al gregge: capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di chi teme di non farcela; attenti a rialzare, a rassicurare e a infondere speranza.” (Papa Francesco alla “Professione di fede” dei Vescovi Italiani - S. Pietro 23 maggio 2013).

Posso attestare, parafrasando papa Francesco, che la “forza” di  Mons. Gennaro, anche in quell’ultimo istante, veniva dal Signore. A Lui solo voleva piacere e a Lui solo voleva fossero rivolte le attenzioni della sua Chiesa. Amava citare spesso nelle sue omelie una frase di S. Agostino: “Vuoi piacere a Cristo? Non lo puoi finché sei diverso da Lui.” E rivolto alla sua Chiesa continuava: “Che cosa farai per essere bella? Ti dispiacciono le tue deformità. E allora sarà tuo riformatore il Cristo che è il tuo fondatore”.

“Riformare” è stata la parola d’ordine della Chiesa in diversi tempi della sua storia. È continua la riforma della Chiesa per essere sempre “bella”. Nel suo ingresso a Fermo affermò appunto che “la posta in gioco fondamentale nella missione odierna di tutte le componenti ecclesiali diocesane è il rinnovamento delle stesse comunità cristiane”. Per il mio predecessore “rinnovare”, “riformare” significava dare nuova forma. La perenne novità del Vangelo gli consentì di agire per segni, gesti, attenzioni in modo che, dopo essere stati compresi e accolti, fossero imitati.

Se voleva far percepire il senso del suo essere “maestro della fede” indicava la centralità della Chiesa locale e la sua storia espressa dalle “opere” tramandate nel corso dei secoli, ad incominciare dalla Chiesa Cattedrale. Ritrovare la sua antica “bellezza”, scriveva,  “rimanda all’altra bellezza da ritrovare ogni giorno: quella di una Chiesa che si rinnova, che cresce nello spirito di unità, che si apre alle novità del tempo che muta, senza dimenticare la sua storia e le sue radici” (dalla Presentazione della riedizione  “La Chiesa Metropolitana di Fermo”, ed. Andrea Livi).

E da quel segno che domina le nostre colline e il nostro mare nasceva anche la necessità di una formazione permanente orientata all’unità, alla collaborazione, alla comunione. E anche la necessità di riscoprire le radici di questa Chiesa. Si accorse anche lui, come è accaduto a me in seguito, della storia di santità diffusa nella Chiesa di Fermo e della necessità di valorizzare e attualizzare la testimonianza dei Santi locali. Negli scritti di presentazione delle vite di S. Marone del Piceno, del beato Antonio Grassi, della venerabile Marietta Gioia e nelle Omelie spiegava che questa ricoperta non era “un atteggiamento nostalgico ma un attingere alle proprie radici di fede per spingersi ancora una volta in avanti e prendere il largo mossi dal Vento dello Spirito” E aggiungeva: “possiamo definire il passato, la storia, gli uomini e le donne che l’hanno vissuta santamente una specie di codice genetico che da identità al nostro impegno di oggi” (Presentazione della ristampa del libro “Vita del beato Antonio Grassi” di p. Cristoforo Antici).

Ha lasciato pochissimi scritti, lettere, note pastorali prediligendo una pastorale dei “segni”, dei “gesti”, della prossimità amica.

Di qui l’importanza che dava all’incontro, al dialogo, alla ricerca, in maniera semplice, ma anche esigente, prima di tutto con se stesso.

Per “camminare avanti al gregge” era importante per lui, rendere “riconoscibile” la sua voce e farsi familiare anche a quelli che “non sono di questo ovile”.

Sapeva bene che questo non dipendeva interamente da lui, che si sentiva “uomo imperfetto” e tesseva con i suoi collaboratori l’elogio dell’ “uomo imperfetto”, ma anche dalla fiducia, dalla confidenza, dall’abbandono verso il Signore della vita.

E lo diceva anche in quegli ultimi istanti: “Sono contento. Vado ad incontrare Colui al quale ho dedicato tutta la mia vita!” “Tu mecum es”: il motto, l’invocazione, la preghiera che esprimeva questo “immergersi” nella vita di Dio. Immergersi in Dio ma con i piedi per terra, sulle strade degli uomini e delle donne del nostro tempo con i loro carichi di attese, di domande, di richieste.

Posso attestare, in quest’ottica della carità personale, resa possibile anche dal suo modo di coinvolgere nelle sue attenzioni una rete di amicizie solidali: essa è nota non solo ai destinatari; di quella “istituzionale”: da lui avviata  e che poi ha trovato sviluppo,  ampliamento e radicamento nella nostra Chiesa fermana. Ogni traccia segnata ha trovato il suo compimento. Ogni succedersi di “carismi” e di doni parte dalle tracce che si trovano e prosegue verso nuovi orizzonti e  a volte con nuove energie. “Sostenere il passo di chi crede di non farcela” continua ad essere, su quella scia, la priorità di questa nostra Chiesa in un continuo “farsi prossima” di ogni debolezza umana.

Posso attestare anche delle preoccupazioni (non c’è vescovo senza preoccupazioni). Non fu facile per lui sradicarsi dalla sua terra d’origine, dalla cultura lombarda, ma progressivamente s’innamorò di Fermo e del fermano e incomincio a “conoscerne i pregi e le virtù, le doti di umanità, la ricchezza delle tradizioni, la laboriosità, lo spirito di iniziativa e l’intelligenza critica con sui si sanno affrontare i problemi” (dalla sua “Lettera alla città di Fermo per la Missione Cittadina “Fermo 2000”). Ma, come scrisse, avvertiva anche segni di stanchezza e li elencava: “il serpeggiare di un disagio che può disorientare anche le migliori energie; una sazietà di beni che accompagna spesso una carestia di valori, di punti di riferimento, di religiosità viva, di ricerca del significato profondo della vita”. Ecco, allora, l’importanza del “camminare in mezzo e dietro al gregge” per ascoltare, comprendere, recepire, accogliere, rispondere e indicarli questi punti di riferimento. E strada facendo si accorgeva che uno di questi era già presente nel popolo ed era la sua religiosità, la pietà popolare, soprattutto mariana, per niente scalfita dalla secolarizzazione. Rimaneva sorpreso degli “innumerevoli modi con cui la nostra gente aveva rappresentato la Vergine Maria nel corso dei secoli, mai sazi di intitolare a Lei le proprie attese e bisogni: Madonna del Soccorso, Madonna della Misericordia, Madonna del Pianto, Madonna della Pace, Madonna della Salute, Madonna delle Grazie” . Quando decise di proclamare la Madonna dell’Ambro patrona dei Sibillini “ aveva nella mente e nel cuore la certezza che attraverso Maria, il nostro popolo, avrebbe cercato più in Dio che negli idoli le riposte alle sue domande e ai suoi perché”. È stato attento alla cultura popolare. Ma posso attestare che è stato attento a tutte le culture. Formatosi alla scuola di quel grande bresciano che fu ed è il beato Paolo VI e avendo collaborato agli inizi del suo servizio presbiterale con il Cardinal Bevilacqua intravide da subito come “l’evangelizzazione delle culture, compito attuale della missione ecclesiale, fosse un’opera fondamentale di umanizzazione, secondo l’imperativo evangelico, attraverso un progetto culturale”. E si adoperò perché anche su questo versante fosse centrale la “questione di Dio”.

Per questo come suo successore mi sono premurato non solo di non disperdere questo patrimonio di fede e di stendere su di esso, sulla nostra Chiesa, sulla nostra gente quasi “un manto di preghiera”, fatto anch’esso di segni, di attenzioni, di presenze ma anche di persone e di azioni pastorali capaci di continuare a trasmettere la fede alle generazioni che verranno.

A 10 anni dalla scomparsa di S.E. Mons. Gennaro Franceschetti ho voluto rendere grazie  evocando nello stile di semplicità che gli era caro, immagini, parole, suggestioni e intuizioni e farli diventare per tutti noi una segnaletica utile ad indicare la strada e la meta che il Signore riserva ad ogni viandante che si mette alla sua sequela: “Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce… non temo alcun male, perché tu sei con me.” (Sal 23).

 

           + Luigi Conti

Arcivescovo Metropolita di Fermo

Commenti dei lettori
4 commenti presenti
  • adelaide colombo

    09-02-2015 00:22 - #4
    In ritardo leggo ciò che S.E. Mons. Conti ha scritto in ricordo di Mons. Franceschetti nel decimo anniversario della morte. Sono profondamente commossa e sento il piacere di ringraziare l'Arcivescovo per questo dono che ha fatto alla Comunità Diocesana. Chi Ha avuto la fortuna di conoscere Monsignor Franceschetti lo ha sicuramente sentito presente, vivo, nel prezioso ricordo. Grazie Eccellenza. M. Adelaide Colombo
  • alvaro

    05-02-2015 10:16 - #3
    Eccezionale,parole uscite dal cuore di Mons.Luigi Conti.
  • giuliana zacconi

    04-02-2015 11:39 - #2
    mi sono concessa una pausa durante il lavoro ed ho letto la riflessione di Monsignor Conti per ricordare il suo predecessore: " è stato un buon caffè"! la tenerezza e la forza con cui è stata fatta memoria di Monsignor Franceschetti , per chi lo abbiamo consciuto,è una boccata d'ossigeno, un dono. queste parole mi hanno fatto capire quanta ricchezza e quanta bellezza abbiamo vicino che spesso non percepiamo, accecati dalle criticità e negatività: grazie Monsignor Conti ci ha fatto sentire quanto ci vuole bene e ci richiama a guardare avanti con speranza ....e pazienza tipiche della nostra terra! giuliana
  • Don Luigi Valentini

    04-02-2015 10:36 - #1
    La presentazione che Mons Luigi Conti fa del suo predecessore in questo articolo è veramente aderente alla realtà. Mons. Franceschetti risplende qui nella sua personalità gigantesca di intelligenza e di cuore, nella sua generosità e prossimità verso tutti coloro che hanno avuto la grazia di incontrarlo, nella ricchezza dei molteplici aspetti della suo genio. Grazie, Eccellenza!
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