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Notizie dalle parrocchie
La cronaca di un incontro con i trenta profughi accolti ad Amandola, che diventa occasione per non dimenticare la nostra storia di migranti. Di Giorgio Buratti
La società Perigeo, in collaborazione con il Comune di Amandola, gestisce trenta giovani profughi africani, in un agriturismo di Amandola da circa tre mesi. I ragazzi, tutti sui 20 anni, provengono dai paesi del Gambia, Somalia e Mali, martoriati da continue guerre civili e spaventose povertà.
La diffidenza e le preoccupazioni iniziali dei cittadini stanno pian piano venendo meno, grazie a diversi incontri volti alla socializzazione, come quello organizzato mercoledì 16 luglio scorso dal Parroco D. Paolo De Angelis con i 19 ragazzi della prima comunione. I bambini, accompagnati dai genitori, hanno regalato una T-shirt con stampati tutti i loro nomi da usare nelle partite di calcetto tra di loro e nei tornei estivi del paese. Le magliette sono di tre colori diversi, blu, verde e rosso in modo da poter formare tre squadre, una per nazione.
Durante l’incontro, dopo le foto di rito, dalla fantasia dei bambini sono venute le domande più svariate (Ci sono i leoni da voi?) e tutti sono rimasti toccati dalle storie degli ospiti che hanno dovuto attraversare il deserto ed il mare, affrontare la fame la sete la prigionia, fino a vedere gli amici morire di stenti o annegati; nonostante tutto ciò non si vede nei loro occhi altro che tanta gioia di vivere: non sono occhi spenti dalla noia!.
Il cuoco Isakku, Gambese, si è offerto come traduttore spiegando che mediamente il loro viaggio è durato più di otto mesi, che hanno percorso 4 mila Km, e che la spesa si aggira sui 7 mila dollari, spesso racimolati vendendo tutto quello che avevano, pur di fuggire da tanta sofferenza (molti hanno visto uccidere i loro familiari!). Mentre ci facevamo spiegare queste cose, pian piano, i ragazzi ci si stavano affollando intorno e si capiva che dai loro occhi trapelava il desiderio di essere e si poteva facilmente leggere: “Ci sentiamo rinascere se vi interessate di noi!”
D. Paolo sottolineava il valore simbolico del gesto: ora questi nostri ospiti, pur se di lingua e credo diverso dal nostro (tutti di fede musulmana, ma affatto intolleranti), avranno sui loro cuori i nomi di questi bambini amandolesi, e li porteranno in giro per il mondo (infatti il loro obiettivo è continuare il viaggio per il nord Europa). Viene spontaneo ricordare la frase di S. Paolo: “Fateci posto nei vostri cuori, che significa: permetteteci di farci del bene facendo del bene a voi, infatti la carità sempre ricade su chi la fa!”.
L’incontro con i profughi diventa anche occasione per non dimenticare la nostra storia: siamo stati anche noi migranti, spesso trattati peggio di come noi trattiamo loro. Questo testimonia che, tolti dei casi vergognosi, l’Italia non è mai stata e non dovrà mai essere un paese intollerante. La nostra ricchezza storica e culturale spesso viene proprio dall’incontro con lo straniero; la posizione strategica nel bel mezzo del mediterraneo attesta che l’Italia non può chiudere le porte all’altro. Per questo sorge alla mente una strofa di una canzone di migranti veneti di fine ‘800, Merica merica, diventata dal 2005 inno ufficiale della Colonizzazione Italiana nel territorio del Rio Grande do Sul (Brasile) che denuncia i maltrattamenti e le sofferenze dei nostri:
Quando in America noi siamo arrivati
Abbiam dormito sul nudo terreno,
non abbiam trovato né paglia né fieno,
come le bestie ci hanno trattà.
Nella messa di ringraziamento, celebrata dopo l’incontro, il parroco ha voluto ricordare le parole del premier inglese Cameron nell’incontro con Benedetto XVI nel 2010: “La Chiesa Cattolica e le sue organizzazioni sono in prima linea nella lotta contro la povertà. Noi lavoriamo insieme con esse”, per dire che è un’occasione per tutti di crescita nella carità e nella gratuità.
Buratti Giorgio
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