Il pensiero del giorno
Il pensiero del giorno
La venuta del Messia si inaugura con una grande festa, segno della bontà e della grazia di Dio. Adombrata nella profezia di Isaia, si realizza in Cristo che ci chiama alla sua festa, il nuovo ed eterno convito simbolizzato dalla moltiplicazione dei pani. Pane in abbondanza, anzi in "sovrabbondanza" perché non manchi mai per la fame dell'uomo, fame di tutti i giorni, ma anche fame di eternità. Che cosa ci potevamo aspettare di diverso da Colui che è nato a Betlemme, la "casa del pane"?
Nel periodo di avvento, che abbiamo appena iniziato, il profeta Isaia è il profeta che leggeremo e mediteremo di più: è il profeta della speranza che sa guardare e interpretare i fatti quotidiani con l'occhio della fede e usa parole di consolazione per un popolo oppresso e travolto dai fatti della storia che camminava nel buio di un tempo senza futuro. La profezia di oggi, di grande respiro, annuncia i tempi nuovi, i tempi messianici con la nascita di un discendente della stirpe di David. Il fanciullo ricolmo dei doni dello Spirito di Dio sarà portatore di pace e riconciliatore del creato. Anche noi, nella fede, attendiamo la venuta di un fanciullo che cambierà la storia dell'uomo. I cuori semplici e aperti alla novità sapranno riconoscerlo e accoglierlo.
Bethsaida di Galilea - Patrasso (Grecia), ca. 60 dopo Cristo
Andrea, già discepolo di Giovanni Battista, fratello di Pietro, gli comunicò la scoperta del Messia. Entrambi furono chiamati dal Maestro sulle rive del lago per diventare 'pescatori di uomini'. Nel prodigio della moltiplicazione dei pani segnala a Gesù il fanciullo dei cinque pani e dei due pesci. Egli stesso insieme a Filippo riferisce che alcuni Greci vogliono vedere Gesù. Crocifisso a Patrasso secondo la tradizione, è particolarmente venerato nella Chiesa greca. (dal Messale Romano)
Patronato: Pescatori
Etimologia: Andrea = virile, gagliardo, dal greco
Emblema: Croce decussata, Rete da pescatore
Martirologio Romano: Festa di sant’Andrea, Apostolo: nato a Betsaida, fratello di Simon Pietro e pescatore insieme a lui, fu il primo tra i discepoli di Giovanni Battista ad essere chiamato dal Signore Gesù presso il Giordano, lo seguì e condusse da lui anche suo fratello. Dopo la Pentecoste si dice abbia predicato il Vangelo nella regione dell’Acaia in Grecia e subí la crocifissione a Patrasso. La Chiesa di Costantinopoli lo venera come suo insigne patrono.
L'ultimo giorno del vecchio anno liturgico ci propone due indicazioni. La prima, nella spiegazione della visione di Daniele ci dice che il Signore guida la storia al di là degli uomini, ma sempre con gli uomini. La seconda è un invito ad essere vigili, attenti e preparati alla venuta del Signore.
Daniele ci propone la visione di quattro. bestie Le quattro bestie della visione rappresentano la successione dei regni: il leone è Babilonia, l'orso i Medi, il leopardo i Persiani, l'ultima bestia il regno di Alessandro Magno. Le dieci corna rappresentano i successori di Alessandro e, tra questi, si distingue un corno che indica Antioco IV re di Siria, protagonista di una persecuzione contro gli Ebrei. Questi regni, i cui re sono arroganti, disumani e sanguinari, sono destinati a finire. A questi Daniele contrappone il "vero" regno che ha come guida il "figlio dell'uomo" che esercita non un potere costrittivo, ma un potere di servizio sulla scia della fedeltà di Dio.
L'episodio di Daniele nella liturgia della parola odierna ci fa riflettere sulla fedeltà. Fedeltà di Daniele al suo Dio e fedeltà di Dio nel salvare Daniele. Sia la prima lettura che il vangelo ci fanno porre lo sguardo al di là del momento presente per cogliere l'amore di Dio che conduce la storia ad un fine di felicità anche se attraverso prove e sofferenze. "Sollevatevi e alzate il capo": è la posizione eretta, quella di risorti, è la posizione di chi guarda lontano, al futuro anche quando questo futuro sembra non esistere.
Alessandria d’Egitto, secoli III-IV
Questa è la Caterina inafferrabile, senza notizie sicure della vita e della morte. Ed è la Caterina onnipresente in Europa, per la diffusione del suo culto, che ha poi influito anche sulla letteratura popolare e sul folclore. Parlano di lei alcuni testi redatti tra il VI e il X secolo, cioè tardivi rispetto all’anno 305, indicato come quello della sua morte. Ed ecco come emerge la sua figura da questi racconti pieni di particolari fantasiosi. Caterina è una bella diciottenne cristiana, figlia di nobili e vive ad Alessandria d’Egitto.
Qui, nel 305, arriva Massimino Daia, nominato governatore di Egitto e Siria (che si proclamerà “Augusto”, cioè imperatore, nel 307, morendo suicida nel 313). Per l’occasione si celebrano feste grandiose, che includono anche il sacrificio di animali alle divinità pagane. Un atto obbligatorio per tutti i sudditi, e quindi anche per i cristiani, ancora perseguitati. Caterina si presenta a Massimino, invitandolo a riconoscere invece Gesù Cristo come redentore dell’umanità, e rifiutando il sacrificio.
Massimino allora convoca un gruppo di intellettuali alessandrini, perché la convincano a venerare gli dèi. Ma è invece Caterina che convince loro a farsi cristiani. Per questa conversione così pronta, Massimino li fa uccidere tutti, poi richiama Caterina e le propone addirittura il matrimonio. Nuovo rifiuto, sempre rifiuti, finché il governatore la condanna a una morte orribile: una grande ruota dentata farà strazio del suo corpo.
Un nuovo miracolo salva la giovane, che poi viene decapitata: ma gli angeli portano miracolosamente il suo corpo da Alessandria fino al Sinai, dove ancora oggi l’altura vicina a Gebel Musa (Montagna di Mosè) si chiama Gebel Katherin. Questo avviene il 24-25 novembre 305. E alcuni studiosi ritengono che il racconto leggendario indichi, trasfigurandola, un’effettiva traslazione del corpo sul monte, avvenuta però in epoca successiva. Dal Gebel Katherin, infine, e in data sconosciuta, le spoglie furono portate nel monastero a lei dedicato, sotto quel monte.
A una sua biografia così poco attendibile si contrappone la realtà di un culto diffuso anche fuori dall’Egitto. La troviamo raffigurata nella basilica romana di San Lorenzo, in una pittura dell’VIII secolo col nome scritto verticalmente: Ca/te/ri/na; a Napoli (sec. X-XI) nelle catacombe di San Gennaro, e più tardi in molte parti d’Italia, così come in Francia e nell’Europa centro-settentrionale, dove ispira anche poemetti, rappresentazioni sacre e “cantari”.
La sua festa annuale è vista principalmente come la festa dei giovani. In Francia, Caterina diviene la patrona degli studenti di teologia e la titolare di molte confraternite femminili; e, in particolare, la protettrice delle apprendiste sarte, che da lei prenderanno il nome destinato a durare a lungo anche in Italia: “Caterinette”.
(di Domenico Agasso)
Patronato: Filosofi, Studenti, Mugnai
Etimologia: Caterina = donna pura, dal greco
Emblema: Anello, Palma, Ruota
Martirologio Romano: Santa Caterina, secondo la tradizione vergine e martire ad Alessandria, ricolma di acuto ingegno, sapienza e forza d’animo. Il suo corpo è oggetto di pia venerazione nel monastero sul monte Sinai.
+ Tonchino, Annam, Cocincina (Vietnam), dal 1745 al 1862
Martirologio Romano: Memoria dei santi Andrea Dung Lac, sacerdote, e compagni, martiri. Con un’unica celebrazione si onorano centodiciassette martiri di varie regioni del Viet Nam, tra i quali otto vescovi, moltissimi sacerdoti e un gran numero di fedeli laici di entrambi i sessi e di ogni condizione ed età, che preferirono tutti patire l’esilio, il carcere, le torture e l’estremo supplizio piuttosto che recare oltraggio alla croce e rinnegare la fede cristiana.
-------------------------
Il capolista dei 117 martiri è Andrea Dung-Lac prima catechista e poi sacerdote vietnamita. Nacque nel 1795 da genitori pagani ma così poveri che se ne disfecero volentieri vendendolo ad un catechista, visse alla missione di Vinh-Tri, dove fu battezzato, istruito e diventando anche catechista; continuò gli studi teologici e il 15 marzo 1823 fu consacrato sacerdote, nominato parroco in varie zone, alla fine fu arrestato più volte durante la persecuzione del re Minh-Manh, ogni volta fu riscattato presso i mandarini, dai cristiani locali, continuando, pericolosamente per lui, l’apostolato fra i fedeli e amministrando i sacramenti.
Arrestato ancora una volta il 10 novembre 1839 dal sindaco di Ké-Song, fu rilasciato dietro il pagamento di 200 pezze d’argento raccolte fra i cristiani, ma mentre attraversava il fiume in barca per allontanarsi, ebbe delle difficoltà per cui fu aiutato a scendere a terra sull’altra sponda; chi l’aiutò era il segretario del prefetto che riconosciutolo esclamò: “Ho preso un maestro di religione!”.
Condotto nella prigione di Hanoi il 16 novembre 1839, fu sottoposto a snervanti interrogatori e invitato più volte ad apostatare e calpestare la croce, ma essendo restato fermo nella sua fede venne condannato alla decapitazione, sentenza eseguita il 21 dicembre 1839.
È stato posto come capolista nel calendario liturgico, sia per il culto che gode nel suo Paese, sia per l’esempio luminoso dato durante la sua vita. Gli altri 116 santi martiri nel Tonchino (Vietnam) hanno ognuno una storia edificante del loro martirio, compiutasi in luoghi e date diverse, ma accomunati nella gloria dei santi. Non è possibile in questo spazio elencarli tutti, riporto solo i nomi degli otto vescovi: Geronimo Hermosilla, Valentino Berrio-Ochoa, Domenico Henares, Ignazio Delgado Cebrián, Giuseppe Maria Diaz Sanjurjo, Melchiorre Garcia Sampredo Suárez, tutti domenicani e Pietro Rosa Orsola Borie, Stefano Teodoro Cuenot delle Missioni Estere di Parigi.
Si riportano di seguito i nomi dei 117 santi martiri, prima i vescovi, seguono i sacerdoti e poi i laici tonchinesi o vietnamiti.
Vescovi:
Domenico Henares, Ignazio Delgado Cebrián, Giuseppe Maria Diaz Sanjurjo, Melchiorre García Sampredo Suarez, Hieronymo Hermosilla, Valentino Berrio-Ochoa, tutti domenicani e Stefano Teodoro Cuenot, Pietro Rosa Ursula Borie, delle Missioni Estere di Parigi.
Sacerdoti domenicani:
Francesco Gil de Federich, Matteo Alonso Leciniana, Giacinto Castañeda, Vincenzo Lê Quang Liêm, Vincenzo Do Yen, Giuseppe Fernandez, Domenico Nguyen Van Hanh, Pietro Nguyen Van Tu, Domenico Tuóc, Tommaso Dinh Viet Du, Domenico Nguyen Van Xuyen, Giuseppe Do Quang Hien, Domenico Trach, Domenico Mau, Giuseppe Tuan, Pietro Almato Ribera.
Sacerdoti Terziari domenicani:
Domenico Cam, Tommaso Khuong.
Sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi:
Francesco Isidoro Gagelin, Giuseppe Marchand, Giovanni Carlo Cornay, Francesco Jaccard, Jean-Louis Bonnard, Pietro Francesco Néron, Teofano Vénard.
Sacerdoti diocesani tonchinesi:
Andrea Dung Lac, Emanuele Nguyen Van Trié, Giovanni Dat, Pietro Le Tuy, Pietro Nguyen Bá Tuan, Bernardo Vu Van Due, Giacomo Do Mai Nam, Giuseppe Dang Dinh Vien, Vincenzo Nguyen Thé Diem, Pietro Vo Dang Khoa, Pietro Truong Van Thi, Paolo Pham Khac Khoan, Luca Vu Ba Loan, Paolo Nguyen Ngan, Giuseppe Nguyen Din Nghi, Martino Ta Duc Thinh, Poeto Khanh, Filippo Phan Van Minh, Lorenzo Nguyen Van Huong, Paolo Lé Bao Tinh, Paolo Lé Van Loc, Pietro Doan Cong Quy, Pietro Nguyen Van Luu, Giovanni Doan Trinh Hoan.
Laici cristiani vietnamiti:
Tommaso Tran Van Thién, Emanuele Le Van Phung e altri 57 martiri, dei quali 10 erano terziari domenicani.
La comune festa liturgica dei 117 martiri del Tonchino (Vietnam), fu fissata al 24 novembre, con memoria singola per alcuni di essi, specie per quelli appartenenti a Congregazioni Missionarie.
(di Antonio Borrelli)
In questa ultima settimana del tempo ordinario la liturgia della parola nei giorni feriali ci propone brani di carattere apocalittico. Con un racconto simbolico si getta uno sguardo più che sul futuro, sul presente dove Dio esprime un giudizio che comunque non è per la perdizione, ma per la conversione e la speranza che nonostante dolori e persecuzioni la storia che lui fa con l'uomo è una storia di salvezza che ha come fine la felicità dell'uomo. In sintesi si potrebbe dire che le letture di questa settimana ci vogliono dire che "alla fine il bene vince sempre sul male". La prima lettura ci presenta l'antefatto della storia di Daniele: Il re babilonese Nabucodonosor che aveva deportato in Babilonia il popolo ebreo, sceglie alcuni giovani ebrei per il servizio di corte. Tra questi Daniele, Ananìa, Misaèle e Azarìa. Al contrario degli altri giovani ebrei, costoro, si rifiutano di contaminarsi praticando le usanze del popolo oppressore. In virtù di questa scelta di fedeltà Dio concede ai giovani, oltre che di mantenersi in salute, sapienza e intelligenza impareggiabili e a Daniele, in modo particolare dà il dono di interpretare i sogni. Gesù, nel vangelo, prendendo spunto dall'elemosina della vedova, esprime un giudizio sui ricchi del tempo e invita alla carità autentica che esprima solidarietà e non semplicemente alienazione del superfluo.
«Non è una vergogna l’essere povero, ma il non sopportare nobilmente la povertà»
(Basilio di Cesarea il Grande)
Gesù se la prende con chi "mercanteggia" con le cose di Dio. Mercanteggiare, cioè trattare Dio alla stregua di un assicuratore, fare patti, chiedere offrendo. Non ci è mai venuto in mente di dire a Dio: "Ma come, io vengo a Messa, prego, e poi mi succede questo e quest'altro?". Dovreste vedere quanta devozione nasce negli studenti prima degli scrutini! Mercanteggiare con Dio: io so qual'é la mia felicità lui, per cortesia, si adegui. Questo rapporto, però, manca dell'autenticità che ci è essenziale per incontrare Dio. Le nostre riserve mentali, i nostri piccoli mondi non si aprono al respiro poderoso dello Spirito, teniamoci allora il Dio lntano da corrompere. Gesù, con rabbia, si scaglia contro questa visione. Ma come, lui viene a rivelarci un Dio compassionevole, pieno di tenerezza e noi ancora a raffigurarcelo inaccessibile? Attenti amici, chiediamoci
se alle volte non facciamo, in tutta incoscienza, lo stesso ragionamento, se
abbiamo lo stesso atteggiamento di chi mercanteggia un po' con Dio. Non si
acquista la sua benevolenza: ci è donata gratis. Non chiede prezzo colui che ci
ama senza misura. Attenti a non avvicinarci a lui con il cuore stretto e piccolo di
chi deve mercanteggiare, è un Padre colui a cui ci rivolgiamo, e Gesù sarà
disposto a morire per affermare questa verità...
(Paolo Curtaz)
Gesù, al vedere Gerusalemme, scoppiò a piangere. Era la città santa, mèta desiderata da ogni israelita, simbolo dell'unità del popolo, molto di più della semplice capitale di uno Stato. Gerusalemme, tuttavia, stava tradendo la sua vocazione di città della pace; l'ingiustizia e la violenza percorrevano le sue strade, i poveri erano dimenticati e i deboli oppressi, e soprattutto stava per respingere il principe della pace che veniva a visitarla. Non lo voleva neppure morto dentro le sue mura: "Venne tra la sua gente, ma i suoi non lo accolsero". Alla vista della città Gesù pianse. Non piangeva su di sé, come in genere facciamo noi; egli piangeva sulla sua città e sulle tante città che ancora oggi rifiutano la pace e la giustizia. Gesù piange perché, se non si accoglie il Vangelo dell'amore, non rimarrà pietra su pietra delle città degli uomini. Per questo, nonostante il rifiuto, Gesù entra dentro la città, quasi a forzarne le mura. Egli sa - e la resurrezione ne è testimonianza - che l'amore è più forte di ogni violenza, anche dell'ultima violenza, che è la morte.
(mons. Vincenzo Paglia)
I Principi degli Apostoli, Pietro e Paolo, sono sempre associati nella liturgia della Chiesa Romana. Le due basiliche, trofei del martirio di Pietro e Paolo, furono erette sul sepolcro dei due apostoli. Meta di ininterrotto pellegrinaggio attraverso i secoli, sono segno dell'unità e della apostolicità oma. (Mess. Rom.)
Martirologio Romano: Dedicazione delle basiliche dei santi Pietro e Paolo,
Apostoli, delle quali la prima, edificata dall’imperatore Costantino sul colle
Vaticano al di sopra del sepolcro di san Pietro, consunta dal tempo e ricostruita
in forma più ampia, in questo giorno fu nuovamente consacrata; l’altra, sulla via
Ostiense, costruita dagli imperatori Teodosio e Valentiniano e poi distrutta da un
terribile incendio e completamente ricostruita, fu dedicata il 10 dicembre. Nella
loro comune commemorazione viene simbolicamente espressa la fraternità
degli Apostoli e l’unità della Chiesa.
Presburgo, Bratislava, 1207 - Marburgo, Germania, 17 novembre 1231
Figlia di Andrea, re d'Ungheria e di Gertrude, nobildonna di Merano, ebbe una vita breve. Nata nel 1207, fu promessa in moglie a Ludovico figlio ed erede del sovrano di Turingia. Sposa a quattordici anni, madre a quindici, restò vedova a 20. Il marito, Ludovico IV morì ad Otranto in attesa di imbarcarsi con Federico II per la crociata in Terra Santa. Elisabetta aveva tre figli. Dopo il primogenito Ermanno vennero al mondo due bambine: Sofia e Gertrude, quest'ultima data alla luce già orfana di padre. Alla morte del marito, Elisabetta si ritirò a Eisenach, poi nel castello di Pottenstein per scegliere infine come dimora una modesta casa di Marburgo dove fece edificare a proprie spese un ospedale, riducendosi in povertà. Iscrittasi al terz'ordine francescano, offrì tutta se stessa agli ultimi, visitando gli ammalati due volte al giorno, facendosi mendicante e attribuendosi sempre le mansioni più umili. La sua scelta di povertà scatenò la rabbia dei cognati che arrivarono a privarla dei figli. Morì a Marburgo, in Germania il 17 novembre 1231. È stata canonizzata da papa Gregorio IX nel 1235. (Avvenire)
Patronato: Infermieri, Società caritatevoli, Fornai, Ordine Francescano Secolare
Etimologia: Elisabetta = Dio è il mio giuramento, dall'ebraico
Emblema: Cesto di pane
Martirologio Romano: Memoria di santa Elisabetta di Ungheria, che, ancora fanciulla, fu data in sposa a Ludovico, conte di Turingia, al quale diede tre figli; rimasta vedova, dopo aver sostenuto con fortezza d’animo gravi tribolazioni, dedita già da tempo alla meditazione delle realtà celesti, si ritirò a Marburg in Germania in un ospedale da lei fondato, abbracciando la povertà e adoperandosi nella cura degli infermi e dei poveri fino all’ultimo respiro esalato all’età di venticinque anni.
Iniziamo oggi la lettura del primo libro dei Maccabei. Questo libro è fonte importante per la storia del giudaismo del II sec. a.C.; le vicende che esso narra coprono infatti un periodo che va dal 175, inizio del regno di Antioco Epìfane, al 134, data della morte di Simone Maccabeo. Si tratta di soli quaranta anni durante i quali assistiamo all'affermazione della famiglia dei Maccabei e allo stabilirsi della dinastia degli Asmonei. Il libro è costruito secondo uno schema chiaro e lineare:
Introduzione (1,1-10)
Antioco Epìfane e l'ellenizzazione della Giudea (1,11-64)
L'inizio della rivolta maccabaica (2,1-70)
Storia di Giuda Maccabeo (3,1-9,22)
Storia di Giònata Maccabeo (9,23-12,53)
Storia di Simone Maccabeo (13,1-16,17)
Epilogo (16,18-24).
Le idee religiose espresse sono semplici: la guerra contro i Siriani è guerra a difesa delle tradizioni giudaiche, messe in pericolo dalla diffusione dell'ellenismo; le decisioni dei capi sono sempre sostenute dall'assistenza divina. Una caratteristica particolare del libro è che Dio non vi è mai nominato; al posto del suo nome compare l'appellativo "Cielo", secondo una tendenza propria del giudaismo. L'opera è indirizzata a Giudei che vissero dopo l'epopea maccabaica. Il libro non fu riconosciuto come sacro dal giudaismo, perciò non venne letto nella sinagoga e così il testo ebraico andò perduto. Nella versione greca dei LXX, invece, il libro entrò presto nella collezione dei testi sacri. In questa versione è stato accolto nella Chiesa cattolica e in quelle ortodosse e considerato come libro sacro; non è però riconosciuto come tale dalle comunità ecclesiali protestanti e anglicane. Non abbiamo nessuna indicazione precisa sull'autore del libro, né sulla data della sua composizione. Dalla lettura, si può ritenere che si trattasse di un Giudeo piuttosto colto, vissuto in un periodo vicino ai fatti narrati. Oggi comunemente questi viene considerato come lo storico ufficiale della famiglia degli Asmonei. Per la data si oscilla tra il 134, anno della morte di Simone Maccabeo, quando termina il racconto, e il 63, quando Gerusalemme fu invasa dalle truppe romane e Pompeo entrò addirittura nel tempio: nel libro il giudizio sui Romani è ancora positivo.
Detti dei Padri del deserto
«Abbà Arsenio, quando ancora abitava nel palazzo imperiale, pregò Dio con queste parole: "Signore mostrami la strada che conduce alla salvezza". E una voce si rivolse a lui e gli disse: "Arsenio fuggi gli uomini e sarai salvato". Lo stesso, divenuto anacoreta, nella sua condizione di eremita, di nuovo rivolse a Dio la stessa preghiera, e intese una voce che gli disse: "Arsenio fuggi (il mondo), resta in silenzio e riposa nella pace. È da queste radici che nasce la possibilità di non peccare"» (Arsenio 1.2).
La preghiera non è solo richiesta, ma anche colloquio, supplica, lode... Abbiamo tante occasioni di pregare. Sembra invece che alcuni cristiani conoscano solo la preghiera di richiesta, quasi in un epidermico neopaganesimo che impone un do ut des a Dio, un meccanico esaudimento determinato dal tempo o dalla quantità della preghiera, salvo poi rimanere delusi se quel Dio non si è piegato alle nostre richieste. La preghiera invece che piega Dio è quella fatta col cuore, non nella superbia del chiedere ma nell'umiltà del donare. ...e la provvidenza di Dio che tutto copre sapra anche soccorrere la nostra povertà cosicchè Dio si possa piegare su di noi in una carezza d'amore e di tenerezza.
C'è una certa curiosità nel sapere quando finirà il mondo. Già i testimoni di Geova ne hanno annunciata più volte la data senza poi che l'evento avvenisse... Anche la società civile, i mass media alle volte ci sorprendono con l'annuncio di una imminente fine del mondo vuoi a causa di un buco nero (quando a Ginevra è stato acceso il Large Hadron Collider, LhC, nel 2008) sia per la posizione particolare della nostra galassia (21/12/2012) sia infine per la caduta di un ipotetico meteorite che dovrebbe riprodurre determinate condizioni catastrofiche simile a quelle già avvenute decine di migliaia di anni fa. Ma il Cristiano come si pone dinanzi a ciò? Illuminanti sono le letture di questo periodo di fine anno liturgico. Due sono i temi fondamentali:1. l'unica cosa certa è che ci sarà un giudizio di Dio sulla storia, 2. di conseguenza l'atteggiamento di vigilanza del cristiano che vive ogni giorno come se fosse l'ultimo giorno.
Wolodymyr in Volynia (Ucraina), 1580 - Vitesbk, Bielorussia, 12 novembre 1623
Nasce a Wolodymyr in Volynia (Ucraina) nel 1580 e viene ricordato come il simbolo di una Russia ferita dalle lotte tra ortodossi e uniati. La diocesi di Polock si trovava in Rutenia, regione che dalla Russia era passata in parte sotto il dominio del Re di Polonia, Sigismondo III. La fede dei Polacchi era quella cattolica romana; in Rutenia invece, come nel resto della Russia, i fedeli aderivano alla Chiesa greco-ortodossa. Si tentò allora un'unione della Chiesa greca con quella latina. Si mantennero cioè i riti e i sacerdoti ortodossi, ma si ristabilì la comunione con Roma. Questa Chiesa, detta «uniate», incontrò l'approvazione del Re di Polonia e del Papa Clemente VIII. Gli ortodossi, però, accusavano di tradimento gli uniati, che non erano ben accetti nemmeno dai cattolici di rito latino. Giovanni Kuncevitz, che prese il nome di Giosafat, fu il grande difensore della Chiesa uniate. A vent'anni era entrato tra i monaci basiliani. Monaco, priore, abate e finalmente arcivescovo di Polock, intraprese una riforma dei costumi monastici della regione rutena, migliorando così la Chiesa uniate. Ma a causa del suo operato nel 1623 un gruppo di ortodossi lo assalì e lo uccise a colpi di spada e di moschetto. (Avvenire)
Patronato: Ecumenisti
Emblema: Bastone pastorale, Palma
Martirologio Romano: Memoria della passione di san Giosafat (Giovanni) Kuncewicz, vescovo di Polotzk e martire, che spinse con costante zelo il suo gregge all’unità cattolica, coltivò con amorevole devozione il rito bizantino-slavo e, a Vitebsk in Bielorussia, a quel tempo sotto la giurisdizione polacca, crudelmente assalito in un tumulto dalla folla a lui avversa, morì per l’unità della Chiesa e per la verità cattolica.
Eventi dalla diocesi
Presso il Santuario di Santa Maria della Misericordia di Petriolo, luogo giubilare pro hac vice