Il pensiero del giorno
Il pensiero del giorno
Chi siamo noi? Come possiamo definirci? Siamo persone che si sono messe davvero alla sequela di Cristo o siamo di quelli che ascoltano il primo arrivato o l'ultima novità? (1 lett. 2Cor 11, 1-11). Il Vangelo odierno ci propone il testo del Padre Nostro redatto da Matteo. La preghiera non è da recitare, ma da vivere. I discepoli, affascinati dal modo di pregare e di vivere di Gesù, si mettono alla sua scuola. Il Padre Nostro è una preghiera per chi si sente figlio e si affida a Lui, nella certezza che riceverà dal suo "Abbà" quanto è bene per lui. E' un grande atto di fede e di abbandono alla sua volontà, una richiesta di aiuto costante e, nel perdono reciproco, un segno tangibile del Suo amore.
a cura delle monache benedettine di Fermo
Quanto oggi conti l'apparenza lo sappiamo tutti. Tutti soffriamo di questa malattia. Ci sembra, a volte, di essere giudicati male, di non essere come altri dicono. Gesù dichiara apertamente che la cosa importante è il rapporto d'intimità con Dio: all'elemosina pubblica, che spesso umilia il povero, contrappone la RISERVATEZZA; alla preghiera vistosa, spesso falsa, la solitudine con Dio e, all' ostentazione del digiuno, la normalità di vita.
Non contano le nostre grandi opere di carità momentanee, ma il donarsi nel quotidiano. E' la continuità del dono che commuove il cuore di Dio, tanto da assicurarci il suo aiuto e la sua grazia per compiere generosamente tutte le opere di bene, nella gioia, prerogativa dell'autentico cristiano.
a cura delle monache benedettine di Fermo
Nel Vangelo odierno il Signore Gesù ci scuote ancora una volta: non basta amare chi già ci ama, troppo facile!!! Bisogna trattare con affetto, accoogliere con affabilità anche il nemico ossia chiunque ci faccia del male. Il cristiano vero continua ad amare nonostante l'altro continui ad essergli ostile e non tiene conto né della sua diversità, né della sua negatività e lo fa in maniera concreta. Il Signore ci chiama a trattare tutti in maniera uguale anche se l'altro "non lo merita"; ad essere "buoni verso tutti" per essere come Lui è: perfetti! Non possiamo ugugliare Dio, ma possiamo sicuramente, stando alla sua presenza, impregnarci della sua misericordia per donarla all'altro.
a cura delle monache benedettine di Fermo
Quanto siamo lontani dal 'conoscere' Cristo! Abbiamo sentito parlare di Lui, delle sue grandi gesta, di colui che ci dona salvezza! Spesso però dimentichiamo che Egli "ha presentato il dorso ai flagellatori, le guance a coloro che gli strappavano la barba, non ha sottratto la faccia agli insulti e agli sputi" (Is 50, 6) . Ma che razza di uomo è Gesù? Sicuramente un debole, un uomo da poco, un uomo che non sa farsi rispettare!
"Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!" (I° lettura 2Cor 6, 3). Il più forte non è colui che si vendica o che ha sempre l'ultima parola, ma colui che in qualsiasi difficoltà non cede alla violenza, ma è benevolo, magnanimo...è colui che sembra "non avere nulla, ma possiede tutto" perché nessuno potrà mai separarlo dall'amore di Dio in Cristo Gesù.
a cura delle monache benedettine di Fermo
“Doce ergo me suavitatem inspirando caritatem ... Doce me disciplinam donando patientiam, doce me scientiam illuminando intelligentiam.”
Insegnami la dolcezza ispirandomi la carità, insegnami la disciplina dandomi la pazienza e insegnami la scienza illuminandomi la mente.
S. Agostino
Cosa viene da Dio e cosa no ci può essere illuminato dalla Parola di questo giorno. Da Dio sorge una nuova creazione, per chi accoglie la sua Buona Notizia. Egli infatti, anche se è morto una volta soltanto, in realtà muore singolarmente per ciascuno di noi. Il Signore fu detto anche maledizione, non nel senso d’esserlo, ma di aver preso su di sé la nostra maledizione. Egli assunse i nostri peccati ed infermità (Gregorio di Nazianzo, ep. 101 a Cledonio, 61; Ambrogio, De Incarnationis Dominicae Sacramento, 6,60). Infatti siamo stati battezzati nella sua morte, qualsiasi età avevamo (Agostino, Contra Iulianum VI,15,48). Cristo però, disceso agli inferi, non poteva essere trattenuto dalla morte grazie alla sua giustizia, che rese possibile la liberazione dalla questa schiavitù per tutti coloro che, sebbene peccatori, hanno il segno della croce (Ambrosiaster, In 2Cor, 15,21,5). Usciti dal fonte battesimale, la grazia di Dio trasformò le nostre anime e ci ha rimodellato. No cambiando la sostanza della nostra persona, ma donandoci una vera capacità di scelta, come se avesse eliminato un impedimento agli occhi nello scorgere la reale bruttezza del vizio, e di cogliere la grande bellezza e splendore della virtù (Giovanni Crisostomo, Cathechesis ad illuminandos, VIII,14). Ciò che va oltre questa adesione all’opera salvfica di Cristo, non viene da Dio. Egli vuole il nostro Sì, non i tentennamenti, gli aggiustamenti. Pertanto chi vive con semplicità la propria fede non ha bisogno di fare giuramenti. Le sue azioni e parole sono nella verità, proprio perché non hanno bisogno d’aggiungere altro. (Ilario di Poitiers, In Mt, 4,23). A che servono i giuramenti se già in noi sappiamo con certezza d’essere nella verità? Sarebbe solo come mettere le mani avanti per possibili sospetti sul nostro dire. Dobbiamo dire la verità sempre, e non dobbiamo ricorrere a giuramenti per dimostrare che finalmente diciamo il vero (Cromazio di Aquileia, In Mt, 24,2).
a cura di don Lorenzo Torresi
Le letture odierne attestano che la presenza di Dio non ci salva dall’essere esposti alle tribolazioni esistenziali, ma ci permette di non finirne piegati. Infatti, anche se ci troviamo nelle afflizioni, con l’aiuto di Dio non le viviamo come angustie insormontabili che ci conduce alla disperazione (Origene, De oratione, 30,1). Insomma ci molliamo, ma non ci spezziamo di fronte alle intemperie della vita, non però per delle nostre capacità, ma per la grazia di Colui che è morto per noi. Con la stessa logica, è preferibile anche perdere membra del nostro corpo, sebbene fondamentali, pur di salvare la nostra integrità. Il Vangelo fa riferimento all’occhio e alla mano, entrambi destri, ovvero in senso favorevole. Eppure anche le parti migliori di noi possono deturparsi. L’occhio contempla infatti la malvagità, e la mano indica la sua esecuzione (Agostino, Sermo Domini in monte, I,13,38). Nel caso specifico il grande scandalo è causato dall’adulterio. Oggi rientra semplicisticamente fra le curiosità dei gossip, ma nella prima Chiesa esso era uno dei tre peccati la cui assoluzione era riservata solo al vescovo. Pertanto il Vangelo si scaglia anche con chi abbandona il con-sorte al proprio destino. Egli diventa infatti corresponsabile di futuri adulteri dell’altro, dato che gliene offre occasione non prendendosene più cura (Anonimo, Opera imperfecta in Mt, hom. 12).
a cura di don Lorenzo Torresi
Poche notizie ci sono giunte su Barnaba, ma possiamo verificare come la sua notorietà sia stata conservata nella devozione della Chiesa, non perché fu scelto come compagno nel primo viaggio di Paolo, ma perché attuò il modello di missionario tratteggiato dal Vangelo. Egli, di origine cipriota, una volta convertito, lasciò alla comunità cristiani i proventi ricavati dai suoi averi (At 4,36-37), e così divenne sciolto da ogni legame per annunciare il Vangelo. Il discepolo del Signore compie le sue opere in modo disinteressato, non certo per un guadagno terreno. Essi devono mostrare la gratuità dell’Amore di Dio, che per primi hanno ricevuto, per cui sono del tutto superflui per loro i possedimenti (Girolamo, In Mt, X,10,8). Questo senso del distacco è rivolto non solo alle cose, ma pure alle persone. Barnaba infatti non rimane vincolato dagli affetti creatisi ad Antiochia né tantomeno dai ruoli conquistati. Quando gli viene perciò chiesto di ripartire verso nuovi orizzonti, non si tira indietro, con l’entusiasmo di sempre. Con questa disponibilità possiamo compiere prodigi insospettabili, che possono essere solo indice della potenza di Dio trasmessa già negli apostoli (Ilario di Poitiers, In Mt , 10,4), come Barnaba che compì l’opera più grande, condurre un’immensa folla di uomini al Signore. Egli è stato quella luce, di cui il Vangelo ci parlava proprio ieri, che ha permesso d’illuminare molti altri alla Verità (Cromazio d’Aquileia, In Mt, 5,1-4).
a cura di don Lorenzo Torresi
Continui in questi giorni sono i confronti fra l’Antica e Nuova Alleanza, ma oggi possiamo chiarirci le idee in modo speciale. Non si tratta di una contrapposizione, ma di un processo che è stato condotto a compimento. Gesù non è venuto ad abolire la Legge, ma a realizzarla per sempre. Ecco perché oggi siamo invitati ad essere ministri adatti della Nuova Allenza, come dichiara san Paolo ai Corinzi. Opportunatamente era stata data la Legge da Dio: perché vi fosse il timore del peccato. Ma poiché il genere umano è fragile, già agli apostoli è stata conferita la misericordia di Dio nella predicazione (Ambrosiaster, In 2Cor 3,5). Allo stesso modo non va colta con senso d’opposizione la differenza segnalata dall’Apostolo fra la lettera, intendendoci le realtà corporee, e lo spirito, che indica quelle spirituali (Origene, De principiis, X,1,2). Esse per ispirazione del Figlio di Dio fattosi uomo ci segnalano cosa è realmente superfluo. Si tratta dei vizi dell’anima, i peccati della dissolutezza, di cui non necessita la natura, come lo dimostra il fatto che essa in origine non li possedeva. La circoncisione corporale è un segno nella carne, mentre la circoncisione spirituale è la verità: la prima taglia il membro, l’altra il peccato (Ambrogio, ep. 64 a Ireneo, 4).
a cura di don Lorenzo Torresi
Oggi nelle letture comprendiamo bene il ruolo dell’apostolo. Essi non sono inviati dal Signore a imporre la Verità, ma a renderne testimonianza. Sono collaboratori della gioia per la scoperta della fede nei fratelli che si porranno in loro ascolto. C’accompagnano in questo percorso di salvezza, indicandoci la via. Sono luce e sale di una nuova umanità. Questa luce già brillava nei profeti dell’Antico Testamento, ma poi s’accese completamente quando Cristo s’incarnò nel seno della Vergine Maria, assumendo questo “vaso di creta” che ha però al suo interno un tesoro incontenibile (Cirillo di Gerusalemme, Cathechesis ad illuminandos X,15). Il sale serve a conservare i cibi in buono stato e non farli diventare avariati, così come l’azione degli apostoli permette che il mondo non debba nausearsi dal fetore dei peccati (Origene, framm. 9). Anche gli odierni apostoli devono così essere poveri, per essere liberi di rimproverare chi persegue la ricchezza; sospirare e piangere per le colpe altrui, affinché possano arrossire dalla vergogna i peccatori; essere assetati e affamati di giustizia per spingere al bene con le loro opere anche coloro che sono riluttanti all’ascolto della Parola; devono essere miti per essere amati piuttosto che temuti; severi con se stessi ma misericordiosi con gli altri; puri di cuore per non finire di pensare solo alle cose del mondo (Anonimo, Opera imperfecta in Mt, hom. 10).
a cura di don Lorenzo Torresi
Qual è il dono della speranza fondata sulla fede? La consolazione dice l’Apostolo, nel saluto iniziale della seconda lettera rivolta alla comunità di Corinto. Essa non è certo rassegnazione, come attesta la stessa vita di san Paolo, ma forza che ci fa sopportare le sofferenze. Ossia ci rende capaci di affrontarle e farci rimanere in piedi anche quando sperimentiamo i nostri momenti più bui. Egli s’ispirava di certo dal discorso della montagna o delle beatitudini, di cui ne accenna proprio la seconda. Gli afflitti devono considerarsi beati, perché vivranno questa consolazione della fede nonostante le dure prove della vita. Questo macarismo è condiviso sia da Matteo che da Luca, sebbene ora leggiamo il primo che presenta il discorso di Gesù in maniera più completa. Esso infatti è descritto su un monte, posto ideale per il sermone più elevato del Salvatore. Non è rivolto a tutti, ma ai prescelti apostoli. Questa magna charta del Cristianesimo, fra l’altro, ci suggerisce che i poveri di spirito sono coloro che non hanno un’idea altezzosa di sé, ovvero gli umili con la loro forza che scaturisce dal conservare ancora la freschezza dei bambini (Anonimo, Opera imperfecta in Mt, hom. 9). In tal modo si presentaranno però ricchi al cospetto di Dio (Cromazio di Aquileia, In Mt, 17,2). Essi sapranno essere anche costruttori di pace. Lo dimostrano soprattutto dimenticando i torti subiti. A queste altitudini li fa arrivare l’amore per la pace. (Anonimo, Opera imperfecta in Mt, hom. 9).
a cura di don Lorenzo Torresi
Siamo al termine del libro di Tobia e l’arcangelo Raffaele svela ai protagonisti la sua identità e la missione che ha portato a compimento per la misericordia di Dio che ha mostrato così di non essere sordo alle invocazioni del giusto. Egli lo ha benedetto secondo i suoi tempi e la sua modalità, permettendo che passasse per la prova e la derisione. Il discorso finale di Raffaele è una sintesi di tutto il libro, di tutte le principali tematiche affrontate. Il “guaritore” spiega che la preghiera è tanto più efficace se accompagnata dall’elemosina e dal digiuno (Cipriano, De opere, 5). Queste opere di misericordia ci rendono come un giacinto, col pallore per il digiuno e lo splendore per l’elemosina (Quodvultdeus, De promissionibus, II,2). Con queste potenti “armi” la preghiera del cristiano non può che salire a Dio (Cipriano, De oratione, 33). Addirittura gli angeli pregano con noi (Origene, De oratione, 11). Pertanto la nostra preghiera diventa comunitaria, come avvenne per la supplica di Tobi assunta dall’arcangelo (Origene, De oratione, 31). Il libro di Tobia merita comunque d’essere riletto integralmente, perché offre molti altri spunti per la vita cristiana. Il vescovo milanese Ambrogio che ne scrive un’opera di commento, non fa altro, in realtà, che trattare in modo diretto ai suoi fedeli di temi sociali. Essi si possono rintracciare anche nel Vangelo riguardo l’obolo versato dalla vedova. È necessario infatti solo non presentarsi al Signore con mani vuote di misericordia, di fede e di castità (Ambrogio, De vidua, 5, 32). Le realtà celesti non si comprano col denaro, ma con l’intenzione e la volontà che si manifestano mediante il denaro, come fece la vedova non trattenendo nulla per sé, ma donando tutto quello che aveva (Giovanni Crisostomo, hom. in Fil 15, 3). Siamo invitati a devolvere al Signore quanto abbiamo, perché nulla di ciò possediamo è nostro; a restituire al Signore i suoi doni con gioia, così come quando con allegria li riceviamo da Lui (Paolino da Nola, ep. 34). Non importa infatti agli occhi di Dio la quantità del denaro, ma la ricchezza dell’anima (Giovanni Crisostomo, De beato Philogonio, 6, 2).
a cura di don Lorenzo Torresi
Tobia, dopo aver preso moglie presso il parentado di Raguele, può ora tornare a casa. Anche al ritorno è accompagnato da Raffaele, che sotto le mentite spoglie di semplice amico l’aveva accompagnato per tutto il viaggio e gli aveva indicato di prendere il pesce, e tirarne fuori il fiele con cui già aveva salvato Sara dalla sua sciagura. Con il medesimo farmaco ora, dietro una nuova indicazione dell’arcangelo guaritore, sanò il padre Tobi dalla cecità, scacciando il demonio Asmodeo. Il fiele del pesce scaccia demonio è immagine della salvezza operata da Cristo (Quodvultdeus, De promissionibus, II,39). I Padri vi hanno visto qui lo stesso pesce che nel battesimo entra in noi per la preghiera sull’acqua del fonte e che già nel nome greco contiene come acrostico il riferimento a Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore (Ottato di Milevi, De schimate, 3, 2, 1). Gesù è in modo unico allo stesso tempo figlio e Signore di Davide. Cogliamo come in questo Vangelo Egli stesso desidera che distinguiamo in Lui la sua persona dalla sua origine temporale (Agostino, Comm. in Gv, 8, 9). Poniamoci anche noi volentieri all’ascolto della sua Parola, per vederne poi gli effetti e le guarigioni nella nostra vita.
a cura di don Lorenzo Torresi
Possiamo individuare il tema di oggi nell’amore con tutto il cuore. È quanto viene ricercato ed espresso nella preghiera dei due giovani, prima di fare esperienza di diventare un’unica carne. Il libro di Tobia è fuori dal canone ebraico, e considerato “apocrifo”, nel senso di utile per la lettura, mentre per noi cattolici è del tutto ispirato. Pertanto questo brano da sempre è stato ripreso per la spiritualità delle giovani coppie di fronte alla loro esperienza erotica. Vediamo qui infatti, anche nell’AT, come l’esperienza di Dio coinvolge ogni esperienza umana, inclusa la sfera sessuale, senza cesure. Il fondamento di ciò è ben illuminato dal Vangelo. Infatti anche se qualcuno credesse di fare qualcosa di buono ma senza carità, non agirebbe bene (Agostino, De gratia et libero arbitrio, 17s). Prefiggiamoci di giungere alla cima della virtù, che è l’amore verso Dio a cui s’aggiunge anche l’amore per il prossimo (Giovanni Crisostomo, homilia in Genesim, 55). È chiaro che nessuno di questi due amori può essere perfetto senza l’altro, come Cristo ha chiesto a Pietro di amarlo e poi d’amare le sue pecore (Beda in Venerabile, hom. in evang., 2, 22). Verificheremo allora quanto l’amore verso il prossimo sia superiore ai sacrifici ed olocausti (Ilario di Poitiers, De trinitate, 9, 24).
a cura di don Lorenzo Torresi
Fattore comune delle due letture del giorno sono i sette fratelli come sposi, come doveva essere per la legge del levirato, secondo cui spettava al cognato prendere in casa sua la vedova. Sette è il numero biblico ideale di figli, come in Rut 4,15; Gb 1,2; 2 Mac 7; At 19,14. Sara, infatti, la prossima moglie di Tobia, si trova nella disperazione per aver fallito come sposa di sette fratelli, tutti deceduti una volta accolti nel suo talamo. Stavolta, prima di unirsi a Tobia che la desiderava come sua sposa, s’affida al Signore con il digiuno e la preghiera. Origene cataloga questa invocazione fra le preghiere per le richieste più grandi e che rendono gloria a Dio (De oratione, 14). È la fiducia nella potenza in Dio che salva questa novella coppia. La stessa che manca ai sadducei, per cui non possono credere che Dio sia in grado di far risorgere la carne (Tertulliano, De resurrectione, 36). Con la venuta del Regno di Dio infatti verranno meno le preoccupazioni e appartenenze terrene (Tertulliano, Ad uxorem, 1, 1). Allora saremo con Dio una cosa sola perché abbiamo lavorato tutti per lo stesso denaro seppur siano molte le dimore presso di lui (Tertulliano, De monogamia, 10).
a cura di don Lorenzo Torresi
In questa sezione odierna del libro di Tobia notiamo con evidenza le continue allusioni del testo a temi di altri libri dell’AT, e soprattutto a Giobbe. La sua pazienza gli permette di sopportare non solo la cecità causata da dalle rondini sbadate, ma anche gli sbeffeggiamenti della persona più intima, la moglie Anna. Sembra anche qui infatti che la sofferenza spetti in modo particolare al giusto, per cui il libro assume i connotati sapienziali e didattici, tipici degli scritti deuterocanonici dell’epoca in cui fu redatto. Paolino di Nola vi vuole addirittura vedere in quest’episodio la forza nel genere maschile (Carmina, 28, 25), che non si manifesta nella violenza ma nella capacità di tollerare anche gli insulti della consorte per la certezza d’essere nel giusto, sebbene la realtà sembri essere beffarda. Anche i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani con tono irriverente e beffardo tentano di mettere in difficoltà Gesù. La consapevolezza dell’imputato di portare con sé l’immagine del Padre gli permette di rispondere con autorevolezza, senza affanno e con dignità riposta in tutti, a differenza della moneta che non conosce di per sé la sua appartenenza (Agostino, Discorso 9, 9). Implicitamente il Figlio suggerisce a tutti noi che dobbiamo rendere a Lui quanto gli appartiene, cioè noi stessi, perché siamo la sua immagine (Tertulliano, De idolatria, 15). Siamo noi la moneta di Dio, che il Figlio è venuto a ricercare e in noi sarà riprodotta la verità (Agostino, Comm. in Gv, 40, 9).
a cura di don Lorenzo Torresi
Si riprende il ciclo ordinario delle letture bibliche. In questa settimana avremo modo di soffermarci sul libro di Tobia. In modo breve purtroppo, perché il testo offre vari temi sapienziali, alcuni di essi tagliati per esigenze strutturali seppur meriterebbero una loro riflessione. Le letture del giorno concordate possono additarci il tema del rispetto. Il protagonista della prima lettura, infatti, sembra essere il padre, Tobi. Egli, esponendosi di persona contro le prescrizioni del tiranno della terra d’esilio dove si trovava, di notte andava a raccogliere i cadaveri dei connazionali, pur d’offrire loro una degna sepoltura. Ciò per la Legge ebraica rientrava fra le opere di carità, comportando la giusta retribuzione già in terra per il bene operato. Anche qui troviamo uno dei fondamenti della nostra cura e spiritualità come cristiani verso i morti. Rispetto che invece viene disatteso per il figlio del vignaiolo nella parabola. Esso sulla carta potrebbe apparire scontato, eppure il Salvatore è stato ucciso nel modo più infame (Ambrogio, De fide, V, 17). Il racconto di Gesù condensa la storia dei tradimenti dell’umanità, a partire dal momento in cui Dio ha plasmato Adamo, fino a preludere quanto l’uomo è capace di compiere nei riguardi del Figlio di Dio (Ireneo di Lione, Adversus haereses, IV, 56, 2). Qui però si realizza l’opera salvifica del Padre, nel rendere la pietra che gli uomini hanno scartato la pietra angolare della nuova costruzione, che è la Chiesa (Eusebio di Cesarea, HE, X, 4, 21).
a cura di don Lorenzo Torresi
Spirito Santo, ti supplico di illuminare la mia mente con luce vivida, necessaria per me e per coloro che chiedono da me, e di sostenere la mia debole volontà con grazie d'amore e di fortezza.
Divino santificatore, conducimi alla vetta della santità attraverso il lavoro continuo, paziente, docile alle tue premure. La santità sei tu ed io devo lasciarti vivere in me, assecondando la tua opera di perfezione.
Divino rinnovatore, rinnova tutto, rimuovi ogni male, ogni pericolo, ogni cattiveria, rifai tutto nuovo per me, tutto puro, tutto santo.
Divino vivificatore, anima della mia anima, dammi la forza di attestare e glori ficare sempre, insieme con te, il Figlio divi no e di vivere per la sua gloria e morire nel suo amore.
Divino donatore, dammi i tuoi doni per contemplare Dio nella luce dei suoi miste ri, per comprendere il vero valore della vita e delle cose e per amare tutti con pura carità, come se già fossi in Cielo.
Amen!
Gesù si allontana, lo segue Pietro che a sua volta scorge Giovanni che li segue. Ancora confuso della fiducia accordatagli, Pietro interroga Gesù sulla sorte di Giovanni. Ma Gesù non risponde in modo chiaro. Ciò che conta è che Giovanni abbia sentito in modo da poter riferire. Ciò che conta è la fiducia data al testimone: “Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera”. Questo solo importa. La nostra fede infatti si fonda sulla testimonianza degli apostoli, come la fede degli apostoli si fonda sulla testimonianza di Gesù. Gli apostoli affronteranno anche il martirio perché testimoni di fatti e non di idee. Allora sì che possiamo dire: Cristo è risorto, alleluia!
a cura delle Benedettine di Fermo
Pietro, nell’ora della prova, si è rivelato in tutta la sua fragilità con il triplice rinnegamento. Quando ne prende coscienza, versa lacrime amare. Gesù lo sottopone ad una specie di esame con una triplice domanda: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?” E Simone a Lui: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo”. In questo amore unico che lega il pastore a Cristo, il pastore stesso si sente legato a Lui per sempre. Egli non può andare dove vuole, non è più padrone del suo tempo, di se stesso: con questa condotta, il pastore glorifica Dio, manifesta l’amore del Padre che salva. Pietro (in lui, ogni pastore) è chiamato a seguire Cristo in questo modo: indossare il grembiule del servizio e lavare i piedi ai fratelli, donandosi perdutamente perché nessuno si perda!
a cura delle Benedettine di Fermo
Eventi dalla diocesi
Presso il Santuario di Santa Maria della Misericordia di Petriolo, luogo giubilare pro hac vice