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Notiziario Santa Vittoria

LA PAROLA A CURA DI DON ALESSANDRO

15 FEBBRAIO 2015 VI DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO "B"


Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31 — 11,1; Mc 1,40-45


L’evangelista Marco racconta alla comunità un episodio nel quale Gesù rivela sempre di più se stesso. Ecco il fatto. Un lebbroso si presenta a Gesù: che fare? Come si comporterà Gesù? Secondo l’usanza del tempo, Gesù avrebbe dovuto scansare scrupolosamente il lebbroso, perché la lebbra suscitava orrore e paura ed era considerata una punizione divina. E proprio la prima lettura ci rivela la vecchia mentalità nei confronti del lebbroso. Cosa fa Gesù? Segue questa mentalità? No! Assolutamente no! Egli infrange il comportamento sociale e religioso della sua epoca, perché per Gesù prima di tutto c’è l’uomo e il primo intervento, in qualsiasi situazione, è voler bene. Gesù rifiuta l’uso della religione per emarginare, escludere e dividere gli uomini.
Scrisse Charles de Foucauld: “Noi siamo tutti figli dell’Altissimo! Tutti!. il più povero, il più ripugnante, un neonato, un vecchio decrepito, l’essere umano meno intelligente, il più abbietto, un idiota, un pazzo, un peccatore, il più grande peccatore, il più ignorante, l’ultimo degli uomini, quello che ripugna moralmente e fisicamente è un figlio di Dio, un figlio dell’Altissimo”. Nessuna malattia, nessuna sofferenza, nessuna disgrazia deve diventare pretesto per abbandonare qualcuno: il dolore del prossimo infatti è proprio l’occasione per amare di più, lo spazio per vivere la carità. Guai a noi cristiani se ci lasciamo sfuggire gli spazi di bene, che ci apre il dolore dei nostri fratelli: chiunque essi siano!
Collochiamo il gesto di Gesù nel mondo di oggi. Anche oggi la lebbra esiste e, tutto sommato, riceve un trattamento molto simile a quello condannato da Gesù nel suo tempo. Racconta Raoul Follereau che nel suo primo viaggio tra i lebbrosi, in India, assisteva una giovane lebbrosa nell’agonia, ebbe un sospetto. Attese che la giovane emettesse l’ultimo respiro e poi la prese tra braccia e volle pesarla: aveva 22 anni, pesava 20 chili. Commenta Follereau: “Non era morta di lebbra, ma era morta di fame”. Perché? Perché qualcuno aveva mangiato il cibo di quella donna, aveva usato i vestiti a spreco, aveva gozzovigliato nel benessere... invece di condividere.
Il gesto di Gesù contiene un invito coraggioso a combattere tutte le emarginazioni. Scrive ancora Follereau: “Signore, ecco i veri lebbrosi: gli egoisti, gli empi, coloro che vivono nell’acqua stagnante, comodi, i paurosi, coloro che sciupano la vita. Signore, sono questi i veri lebbrosi: coloro che ti hanno crocifisso” . E noi? Noi non possiamo fare qualcosa di più, qualcosa di meglio?

Scrive Carlo Carretto: “Mettendo insieme i denari che si spendono per le cure dimagranti o per tentare di guarire gli organi rovinati dal troppo mangiare in Europa e in America, si otterrebbero largamente i mezzi per dare pane ai popoli denutriti d’Africa, America e Asia”. Mi chiedo: e non è proprio questo l’esempio che noi cristiani dobbiamo dare al mondo? Liberiamoci allora coraggiosamente dal superfluo, dall’inutile, dal vano e facciamo entrare nella vita di ogni giorno il pensiero per Cristo che geme nei poveri del mondo.
San Paolo, nella seconda lettura, ci dice: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”. Viene da chiedersi: e come si può dar gloria a Dio nel mangiare? E semplice: vivendo la carità, che è condivisione. Anche il mangiare deve essere illuminato dalla fede, liberato dall’egoismo dello spreco e orientato al dovere di partecipare con chi non ha. Se vivessimo così, avremmo realizzato la civiltà dell’amore, di cui tanto parlava il Beato Paolo VI.
Torniamo al Vangelo. Il gesto di Gesù certamente ha un’applicazione molto più ampia del caso del lebbroso. Infatti non esistono soltanto la lebbra e la fame da combattere: bisogna combattere anche la mentalità che emargina l’anziano, che rifiuta il bambino, che profana la famiglia, che infanga e mortifica la dignità dell’amore. Gesù ha resistito alla mentalità dominante nel suo tempo. Perché oggi noi cristiani non abbiamo Io stesso coraggio? Oggi, per esempio, è dominante la visione della vita come divertimento a tutti i costi e senza norme morali. Questa mentalità fa saltare la famiglia, apre la strada alla droga e all’emarginazione, produce un’ondata nauseante di pornografia e di umiliazione della dìgnità della donna.
Se siamo cristiani perché non reagiamo a questo scempio della vita, dell’amore e della famiglia? Perché non educhiamo i figli a valutare criticamente ciò che la società produce e svende? Lasciar morire un affamato è peccato contro la carità; ma anche lasciar profanare la vita è peccato contro la carità.
 R. Follereau scrisse ancora: “Pensate a voi stessi, e poi a voi stessi e infine ancora a voi stessi. E' il vostro universo. Va bene. Ma allora non dite più che siete cristiani”. Essere cristiani vuol dire condividere con Cristo la passione per salvare l’uomo, ogni uomo, dalle miserie del corpo e, soprattutto, dalle miserie dell’anima.
Che il Signore ci liberi dalla lebbra dell’anima, che sta riducendo a brandelli il nostro cuore. 

BUONA DOMENICA

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